Indipendenza sulla riforma del Titolo V (2001)

Diamo conto delle posizioni che Indipendenza espresse in occasione tanto della riforma tanto del Titolo V della Costituzione, nell’ormai lontano 2001, dalla quale gemma il regionalismo differenziato, quanto della fallita riforma del centro destra del 2006. Ciò per dimostrare sia la coerenza delle posizioni sia la continuità d’indirizzo strategico e politico da noi perseguita.

Sul punto di andarsene, il governo Amato varò in tutta fretta una riforma cosiddetta federalista, contenente un punto nevralgico ‘di svolta’, poco o nient’affatto evidenziato, che costituisce un ulteriore e fondamentale passaggio di subordinazione ai gruppi imprenditoriali e finanziari rappresentati dalla tecnocrazia di Bruxelles, ceto non eletto nemmeno in maniera formalmente democratica. Da lì discendono tutta una serie di conseguenze ‘materiali’, di classe, soprattutto economiche e sociali. Ancora una volta il cuore del problema è però ‘a monte’, e sta nell’irrisolta questione dell’indipendenza nazionale, snodo ineludibile per materializzare una possibile ed effettiva liberazione sociale. Vediamo come e perché.

COLONIZZAZIONE MASCHERATA DA “FEDERALISMO”

-LE RAGIONI DI UN RIFIUTO IN 8 TESI-

PREMESSE:

  1. Le norme giuridiche sono la formalizzazione di rapporti di forza e quindi di interessi materiali sottostanti. Non è decisivo, stante l’attuale sistema di dominio, essere “pro” o “contro” il federalismo. Lo è, invece, essere “contro” il sistema di dominio capitalista ed imperialista, capendone innanzitutto i motivi delle trasformazioni “formali”.
  2. Oggetto del voto, peraltro, non è affatto il federalismo, ma le modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione. Si tratta di un referendum confermativo (per cui non è necessario il quorum) di una legge di revisione costituzionale. Chi vota “Sì” approva il cambiamento. Ora: perché si spaccia per federalista un referendum che federalista non è?
  3. Si lascia credere che si voti per la devoluzione di poteri alle Regioni, mentre per la prima ed unica volta gli Italiani sono chiamati, senza saperlo, a costituzionalizzare l’adesione all’Unione Europea e ulteriori (e pressoché definitivi) automatismi di sussunzione degli obblighi scaturenti dai “trattati internazionali”, tipo NATO. A tal proposito confronta, più sotto, la tesi 1. Si tratta di un passaggio decisivo che include e sovrintende l’ottimizzazione a tutti i livelli dei dettami neoliberisti impressi dal paese centrale del sistema, gli USA, e che si stanno riverberando nelle aree non centrali, come l’Unione Europea.
  4. Questa legge è il risultato ultimo (ma non conclusivo) di un percorso attivato agli inizi degli anni ’90 con le riforme in senso maggioritario dell’elezione diretta del presidente della regione, della provincia e dei sindaci, e proseguito con i provvedimenti del governo Prodi (‘targati’ Bassanini e votati anche da Rifondazione Comunista) sul decentramento di competenze agli Enti locali, comportanti tra l’altro l’obbligo di privatizzare i servizi di pubblica utilità. Le politiche locali sono state sempre più, in questi anni, l’attuazione delle politiche di Stato e soprattutto europee: contenimento delle spese sociali (a partire dalla sanità); privatizzazioni dilaganti (a partire dai trasporti); flessibilità del lavoro, più o meno di concerto con le burocrazie sindacali sia nel settore pubblico sia nell’ambito privato (patti territoriali e contratti d’area); elargizioni al privato nello stesso settore dei servizi sociali (a partire dalle scuole e dagli ospedali), con allegata gestione della lucrosa partita della formazione professionale; devastazione dell’ambiente (attraverso politiche di cementificazione, saccheggio del territorio e del paesaggio, gestione spregiudicata del business dei rifiuti, ecc.), finanche la razionalizzazione della rete scolastica, prevista dalla riforma Berlinguer. Attraverso le leggi Bassanini, si è disegnato un federalismo fiscale che da un lato spinge gli enti locali a reperire fondi con imposte proprie (Ici, ecc.) o con partecipazioni locali alle imposte statali (assicurazioni auto, elettricità, Irpef, Irap), dall’altro taglia loro drasticamente i trasferimenti pubblici, imponendo tagli ai servizi sociali e spingendo nel contempo per la privatizzazione rapida delle aziende municipalizzate e dei servizi pubblici locali, con l’enorme partita finanziaria che ciò configura.
  5. Tutto ciò è l’effetto economico di una ristrutturazione nel territorio del modello capitalista, quantunque nella sua fase liberista, e della relativa subordinazione che investe l’intera nazione, a vari livelli, alla materialità degli interessi di classe dominante, sovranazionale e (a questa servile) ‘interna’. Questo sta a dimostrare il nesso che lega questione nazionale e questione sociale. L’una non si dà senza l’altra.
  6. Vi è una scarsa conoscenza del contenuto del referendum. Per questo, in allegato, riportiamo il testo varato dal centrosinistra ed invitiamo a confrontarlo con il testo originario della Costituzione.

Proponiamo quindi un percorso di lettura che articoliamo per tesi:

  1. Partiamo dall’art.117. A nostro avviso il più significativo. Nel 1° comma è scritto: “La potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali” (corsivo nostro!). Se passasse il referendum confermativo, il centro-sinistra compirebbe un altro atto eversivo della Costituzione. Costringendo gli enti locali ad essere tra i principali attori di certa politica, non ci si adegua solo, in modo organico, alle politiche di rigore, privatizzazioni, flessibilità proprie del disegno strategico di Maastricht, ma nello svuotamento della sovranità nazionale si comprimono ancora di più gli interessi popolari. Nell’eventualità della conferma, ogni azione che disattenda il “diritto comunitario e i trattati internazionali” diventerà incostituzionale e, pertanto, illegittima. Il silenzio sul contenuto essenziale dell’Art.117 è impressionante e induce a supporre che esista, trasversalmente a tutte le forze politiche istituzionali, un forte timore a che si apra una ‘seria’ discussione sull’Unione Europea, considerando il fatto che laddove è stato concesso loro di informarsi e di esprimersi, i “popoli” si sono espressi per il no. Sia chiara una cosa: non si tratta di difendere il vecchio Stato (capitalista) ma di contrastare un’uscita in peggio verso un sovra-mega-Stato europeo ed in qualsivoglia salsa.
  2. La cosiddetta autonomia legislativa delle Regioni è una presa in giro. Diciamo questo, come fatto descrittivo, non perché ci interessi il passaggio da uno Stato capitalista centralista ad uno Stato capitalista federalista. Si colleghi con le premesse 1, 3 e 5. Quale sarebbe l’autonomia legislativa di cui godrebbero le Regioni? Quali le materie su cui le Regioni potrebbero esercitare una potestà legislativa in via esclusiva? Scorrendo le materie  elencate al 2° e 3° comma dell’art.117 è difficile pensare ad una qualche altra competenza non prevista, data anche la generalità degli ambiti indicati. Senza contare che il governo, qualora lo ritenga opportuno, potrà adire la Corte Costituzionale (art.127, 1° comma). Nonostante il 2° comma di detto articolo possa indurre a ritenere il contrario, bisogna considerare i rapporti di forza presenti all’interno della Corte Costituzionale, che si evincono non solo dalle modalità della sua composizione (previste dalla Costituzione: art.135), ma anche dalla realtà delle sue sentenze.
  3. Sulle materie di legislazione concorrente di cui al comma 3°, lo Stato nella pratica, come è sempre avvenuto, potrebbe emanare princìpi di immediata applicazione, vanificando così la “concorrenza” delle Regioni. Nel caso che lo Stato non emani dei princìpi di regolamentazione, vale sempre quello che abbiamo scritto  nell’ultima parte della tesi precedente.
  4. Alla luce di quanto detto, lo Stato, come tramite dei dettami di Bruxelles, sarà molto più presente. Alle Regioni verrà affidato il compito di attuazione ed esecuzione degli accordi internazionali e degli atti dell’Unione Europea (art.117, 5° comma), quindi del rispetto dei parametri del patto di stabilità, con la possibilità sempre presente di essere esautorate. Del resto, cosa pensano di potere fare le Regioni di fronte al trattato di Maastricht (oltre a quelli di Schengen, di Amsterdam, di Nizza…)? Le disponibilità finanziarie, la sanità, l’educazione, la ricerca, la cultura, la polizia interna, tutto, proprio tutto quello che lo Stato “devolve” alle Regioni, è già e sarà sempre più deciso dalla Commissione Europea. In questo contesto lo Stato verrà espressamente chiamato a sostituire le Regioni in caso di inadempienza (art.120, 2° comma), fungendo così da terminale di controllo di Bruxelles (vedi premessa 5).
  5. L’unico ambito che non prevede l’intervento dello Stato è quello finanziario. A ciò è dedicato l’art.119. Leggendo i primi 2 commi, assieme al 4° comma, si capisce che lo Stato non trasferirà più risorse, che gli Enti Locali dovranno reperire “autonomamente”.  Con la fine di tutti i trasferimenti dallo Stato alle Regioni, si avrà un consistente aumento dell’imposizione fiscale. Lo Stato non garantirà più nemmeno sui prestiti contratti dai Comuni (6° comma). È in questo contesto che va quindi letto l’art.118, 4° comma: “Stato, Regioni, città metropolitane, province e comuni favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà”. Ciò significa che non solo è consentita la cessione a privati di funzioni pubbliche (sanità, scuola, previdenza, assistenza, cultura ecc.), ma essa è obbligata, perché l’intervento statale diretto si avrebbe solo laddove gruppi imprenditoriali e finanziari non troverebbero convenienza e profitto. Ecco il significato ‘proprio’ del “principio di sussidiarietà”.
  6. È vero che l’art.119, 5° comma, riserva allo Stato la possibilità di destinare risorse aggiuntive o di effettuare interventi speciali, ma questi si configurerebbero nella forma della discrezionalità: come interventi rivolti al controllo politico e sociale, come concessioni di favori, e quindi implicito sostegno a gruppi e cordate clientelari di riferimento, o come minacce di esclusione a singole Regioni e a singoli gruppi d’interesse. Di fatto è il ritorno in grande stile del vecchio notabilato di giolittiana memoria.
  7. L’espressa previsione di un “fondo perequativo” (art.119, 3° comma), cioè un fondo di sussidiarietà e di sostegno per i “territori con minori capacità fiscali per abitante”, è un’implicita ammissione del devastante impatto che queste misure avranno sulle Regioni più deboli, in particolare quelle del Sud.
  8. Questa riforma del centrosinistra è da respingere. Quella che prospetta il centrodestra altrettanto. A queste due varianti liberiste opponiamo il nostro rifiuto.

Indipendenza

Italia, 6 ottobre 2001

https://associazioneindipendenza.wordpress.com/

ass.indipendenza.info@gmail.com – info@rivistaindipendenza.org

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