La rassegna degli interventi proposti da Indipendenza nel 2006 in concomitanza con la campagna referendaria sulla riforma c.d. ‘devolution’:
– La mistificazione della devolution
– Al referendum del 25-26 giugno vota NO
– Per un NO alla riforma costituzionale
- devolution, dittatura del premier, ridimensionamento del Parlamento
- la presa in giro della devolution
- il titolo V della Costituzione riformato dal centrodestra
- il principio di sussidiarietà
- il premierato del centrodestra e il premierato del centrosinistra
- la sfiducia costruttiva
- il presidente della Repubblica
- il ‘bicameralismo asimmetrico’. Il Senato federale
- la riduzione del numero dei parlamentari
– La strategia delle riforme istituzionali
- dal rapporto della Commissione trilaterale alla riforma costituzionale del centrodestra
- la valenza della Prima Parte della Costituzione
- attacco alla democrazia. Il rapporto della Commissione trilaterale del 1975
- il piano P2 di ‘rinascita democratica’
- breve storia dei progetti di riforma costituzionale. Dalla commissione Bozzi a quella D’Alema
- la mistificazione del ‘federalismo’. Il significato della ‘sussidiarietà’
- il dominio dell’esecutivo
- la funzione dei cittadini nella contesa referendaria
Lo scritto sarebbe dovuto uscire per la versione cartacea di “Indipendenza” (n. 19). Ragioni di spazio non lo hanno reso possibile. Data la rilevanza contiamo comunque di tornare sull’argomento
LA MISTIFICAZIONE DELLA DEVOLUTION
Il tema della cosiddetta devolution non è stato certo tra quelli in primo piano, stante la sua rilevanza. Centrosinistra e centrodestra si sono contraddistinti nell’irretire l’elettorato con partiti, liste e “duelli” ad personam, riducendo la democrazia al puro e semplice atto del voto e all’esercizio illusorio in quel solo giorno della sovranità popolare. A ben vedere il centrosinistra, nonostante l’impegno per la raccolta di firme per il referendum possa far pensare il contrario, ha fatto di questa solo una battaglia strumentale di schieramento, eludendo i contenuti reali della revisione costituzionale imposta dal centrodestra. Farlo, infatti, avrebbe significato mettere in discussione gli assi della strategia di “riforme istituzionali” e della relativa concezione di “modernizzazione” assunta e portata avanti sia prima della propria devolution di revisione costituzionale varata nel 2001, nonché dopo con la cosiddetta “bozza Amato”, cioè le proposte per la riforma della Costituzione approvate nel dicembre 2003 dal coordinamento dei segretari dei partiti del centrosinistra, e lo stesso “programma elettorale” dell’Unione, i cui contenuti (“premierato”, “Senato federale”, “federalismo fiscale”) non si discostano da quelli approvati nel 2005 dal centrodestra. Perché ciò che la “sinistra”, come la Lega, enfatizza come “devolution”, è in realtà una riforma autoritaria del sistema di governo. Le norme costituzionali prevedono infatti un “rafforzamento dell’esecutivo” ed un “governativismo centralistico” su cui in realtà concorda quello stesso centrosinistra appoggiato dalla frazione dominantedel capitalismo italiano:Carlo De Benedetti, UniCredit e San Paolo-Imi ed i soci azionisti di quel Corriere della Sera il cui direttore, Paolo Mieli, con l’editoriale dell’8 marzo, ha sfilato la maschera dell’“indipendenza” esprimendosi apertamente per la ricostituzione dell’asse tra centrosinistra e poteri forti. Un’asse che fu protagonista delle privatizzazioni degli anni ’90, con Draghi –detto l’amerikano– non più al ministero del Tesoro, come nei governi Amato, Ciampi, Berlusconi, Prodi e D’Alema, ma direttamente a Banca d’Italia.
Il centrosinistra –“antiberlusconiano” ma non “anticapitalistico”– spaccia infatti come “devolution” un antiautonomistico e antiparlamentare accentramento e rafforzamento dell’esecutivo e di tutti i vertici istituzionali (locali, regionali e “nazionali”). Si dice in inglese ciò che è desunto dal nostro latino devolvo per non far capire agli italiani che trattasi di esclusiva “ripartizione” di funzioni solo amministrative tra vertici di Stato e di Regioni, con un rafforzamento del governativismo centralista e la subordinazione di cittadini e territorio sociale. Tutto ciò si contrappone alla “Repubblica delle autonomie” prevista dalla nostra Costituzione e si concreta in una forma di governo di tipo autoritario o del “capo” (il “premierato”) che è condizione sovrastrutturale operativa per il consolidamento, in questa fase, del capitalismo e della classe dominante nell’epoca dell’Unione Europea e dell’imperialismo USA.
L’uso del termine “devolution” è un trucco semantico pari a quello con cui l’Ulivo truccò nel 2001 la sua riforma del Titolo V della Costituzione come “federalismo”. Anche allora si parlò infatti di voler “avvicinare le istituzioni al cittadino”: una pura mistificazione, come ben sanno in Val di Susa (ma vale per tutti i territori-sociali dove sono in corso opere-business), dove la “legge obiettivo” sulle “grandi opere” del 2001 ha ribadito il principio dell’emarginazione dei cittadini della valle dalle scelte attinenti al proprio territorio, prevedendo solo il consenso della Regione presidenzialista ed escludendo financo i sindaci dalla possibilità di «concorrere a determinare le scelte nazionali» (art. 49 Costituzione).
Mentre il precedente art. 114 della Costituzione identificava le autonomie locali come articolazione pluralistica dello Stato, garantendone l’autonomia rispetto allo Stato con l’art. 128 (le “autonomie locali” sono “Stato” esse stesse in una “Repubblica delle autonomie” che non è coincide con il solo governo), con le leggi di centrosinistra e centrodestra gli abitanti della Val Susa si sono visti ora di fatto cancellati come realtà sociale –in nome di un cosiddetto “interesse nazionale” identificato con il governo– in quanto totalmente subordinati sia al governo del primo ministro di destra che al presidente della Regione di sinistra, intenti a partecipare al business delle grandi opere tutelato dall’Europa di mercato.
L’“interesse nazionale” torna ad essere quello dello “Stato apparato”, del governo e della governabilità, non più quello della Repubblica delle autonomie. Sul territorio-sociale calano autoritariamente decisioni gerarchicamente ordinate: dai vertici dello Stato a quelli della Regione, alle province ed ai comuni, già da tempo tutti ad elezione diretta presidenzialista. Agli enti territoriali, con il decentramento dall’alto, viene sì affidata qualche funzione amministrativa in più, ma di fatto gli si annulla il ruolo di “soggetti della programmazione economica nazionale” che le autonomie istituzionali (comuni, ecc.), sociali (sindacati, movimenti, eccetera) e religiose (chiese) avevano nella Costituzione.
La condizione principale che ha consentito al centrosinistra prima ed al centrodestra ora di stravolgere parti della nostra Costituzione è stata l’introduzione del sistema elettorale maggioritario agli inizi degli anni ’90.
L’art. 138 di revisione costituzionale, con la previsione di “maggioranze qualificate” per la modifica delle norme costituzionali, si inquadrava infatti nell’ambito di un sistema elettorale proporzionale. Il maggioritario, invece, oltre ad aver determinato una nauseante americanizzazione della politica, con l’aspetto e la presenzialità dei candidati ad avere più valore dei contenuti espressi, ha consentito la formazione in Parlamento di maggioranze fittizie1 nel Paese e rappresentanze non pluraliste, dove chi prende più voti cancella tutti quelli che ne prendono meno. Un sistema appoggiato, anzi voluto in primis dal centrosinistra e “usato” e non “alterato” sostanzialmente dal centrodestra, dato che la sua riforma proporzionale del dicembre 2005, che prevede varie soglie di sbarramento e mancanza di preferenze, è in realtà un maggioritario mascherato, essendo falsato dal premio di maggioranza per la coalizione vincente (anche con meno del 50% dei voti, come nella Legge regionale del 13 Maggio 2004 della Toscana di “sinistra” copiata dal Polo), in cui anche un solo voto di differenza con la coalizione perdente determinerà uno scarto in seggi in Parlamento di gran lunga più ampio.
La modifica autoritaria della forma di governo proposta dal centrodestra trova le sue premesse in ben tre commissioni bicamerali (commissione Bozzi 1984/1985, Iotti-De Mita 1992/1994, D’Alema 1995/1997), di cui l’ultima, istituita con “legge costituzionale” per sostituirsi al Parlamento derogando alle norme di revisione previste dall’art.138, anticipava le modifiche approvate dal centrodestra, ed in cui si prevedeva anche l’introduzione del modello statunitense della Camera delle Regioni.
Un modello che, accelerando l’iter di approvazione delle leggi, restringerà pesantemente i tempi di discussione ed i margini di operatività, nonché di intervento popolare (ad es. manifestazioni di protesta): salvo alcune materie, il modello prevalente sarà quello dei procedimenti monocamerali sulla base delle materie trattate, e non sarà dunque richiesta una doppia approvazione di Camera e Senato sullo stesso testo. Tale sistema vede in prima linea Rifondazione, che ha istituito una commissione presieduta da Franco Russo fautrice di quel“modello tedesco” e dei Lander a suo tempo proposto dalla P2 di Licio Gelli per “riformare” la nostra Costituzione. Il piano della P2 ha segnato in sostanza l’avvio della strategia di quelle “riforme istituzionali” e di quel maggioritario che, grazie anche alla deriva di CGIL e “sinistra” (con tanto di stravolgimento dell’autonomia sindacale con la “concertazione” la cui linea, Melfi insegna, ha portato agli operai una miseria crescente), hanno portato alla delegittimazione del Parlamento, del pluralismo e financo del diritto di sciopero, per cui Berlusconi, in occasione dello sciopero generale, ha potuto ben dire che “è inutile”.
Di fronte alla “riforma” costituzionale berlusconiana si vede ora quanto aberrante sia stato, da parte del centrosinistra, spezzare l’organica interdipendenza tra Prima e Seconda Parte della Costituzione, dato che, modificando quest’ultima, si invalidano nella pratica i principi contenuti nella Prima, di fatto cancellati anche dall’Unione Europea. Quando il centrosinistra afferma che, tornando al governo, “farà una vera riforma della Costituzione”, significa che proseguirà in una strategia che non è alternativa a quella “canonizzata” dal centrodestra, come emerge dalla lettura della succitata “bozza Amato”. Una strategia che ha visto come tappa fondamentale la fissazione del principio di “sussidiarietà” penetrato nel nostro ordinamento con il diritto comunitario. Questo principio presenta vari aspetti. Quello della sussidiarietà cosiddetta “orizzontale”, ad esempio, che si ha quando attività proprie dei pubblici poteri vengono svolte da soggetti privati o comunque esterni all’organizzazione della Pubblica Amministrazione. Un principio che è stato assunto tra i criteri ispiratori della legge Bassanini del 1996 (votata pure da Rifondazione Comunista, che ha rappresentato il grimaldello per la privatizzazione della sanità e dei servizi pubblici) ed è stato “costituzionalizzato” con la modifica del Titolo V della Costituzione del 2001. Fanno dunque sorridere le dichiarazioni di Bertinotti e D’Alema contro la direttiva comunitaria Bolkestein (della Commissione Europea di Prodi) sui servizi e le funzioni pubbliche, quando in realtà operando a Roma hanno già posto le basi per una loro privatizzazione.
In realtà loro contano sulla corta memoria politica. Con quale faccia l’abbiano fatto, peggiorando quel principio di “sussidiarietà” che il fascismo “almeno” limitava alle sole funzioni economiche, lo lasciamo giudicare a chi non si fa abbagliare dall’“antiberlusconismo mistico” e guarda più ai contenuti, soprattutto a quelli enunciati da coloro che pretendono di dirsi “anticapitalisti”, ma di fatto si ritrovano a sostenere la crema del capitalismo italiano. Per dire a testa alta, a Berlusconi, “giù le mani dalla Costituzione”, il centrosinistra dovrebbe allora fare atto di fortissima autocritica, rinunciando alle sue “riforme” della Costituzione e alla cosiddetta “bozza Amato” con cui si rimarrebbe certo fedeli all’allineamento ideologico con la forma di governo britannica e statunitense, ma si affosserebbe il modello di democrazia sociale e politica fondato sull’onda della Resistenza antifascista.
Angelo Ruggeri
28 marzo 2006
1 Essendo, con tale sistema, i seggi in Parlamento non corrispondenti, “proporzionali”, ai consensi popolari assegnati ad ogni singolo partito, col risultato che la maggioranza parlamentare può cambiare addirittura la Costituzione nonostante il rifiuto di una parte consistente, a volte persino maggioritaria nel Paese, del sistema politico.
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AL REFERENDUM DEL 25-26 GIUGNO VOTA “NO”
Respingere ora il modello di revisione “autoritaria” della Costituzione. Bloccare poi, anche in caso di vittoria del NO, il prosieguo della strategia di “riforme istituzionali” funzionale alla fase neoliberista del sistema capitalistico. Ancora in questi giorni dai due poli vengono proposte di dialogo e punti di convergenza per stravolgere la Costituzione non più da soli ma “insieme”: il centrodestra vorrebbe che prima vinca il SI al referendum, mentre il centrosinistra si dichiara pronto all’inciucio costituzionale dopo la vittoria del NO. Sottolineando, se ce ne fosse ancora bisogno, che il NO del centrosinistra allo snaturamento berlusconiano di tutto l’ordinamento della Seconda Parte della Costituzione è in pratica solo un NI. L’antitesi di fondo è tra l’interesse nazionale e la preminenza delle oligarchie e dei loro lacché politici di riferimento. Le oligarchie politiche ed industrial-finanziarie nostrane e soprattutto estere, statunitensi innanzitutto, per dettare meglio le loro strategie a tutto campo, richiedono un adeguamento anche dei meccanismi istituzionali e decisionali dietro l’ideologia della “governabilità”. È interesse delle classi dominate, sempre più subalterne, della nazione rilanciare i valori di fondo della Costituzione, concretarli ed allargarne la portata.
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Lo scritto è una sistemazione di riflessioni interne alla redazione finalizzate a fornire una chiave di lettura il più comprensibile possibile (la materia già di per sé è ostica ai più) del progetto di riforma costituzionale del centrodestra per cui si voterà nel referendum del 25-26 giugno 2006. In tal senso ci si è avvalsi del prezioso lavoro svolto dai siti www.riforme.net e www.laCostituzione.it, impegnati nella campagna referendaria. Nell’insieme si evidenziano anche le convergenze di sostanza in materia di riforme istituzionali provenienti dal centrosinistra (dalla Bozza Amato del dicembre 2003 al programma elettorale dell’Unione del febbraio 2006).
Si rilevano tali affinità e viene motivato il NO al progetto di revisione costituzionale tra l’altro di complicata lettura (come peraltro la riforma costituzionale del centrosinistra del 2001), con diversi articoli non esaustivi in sé ma che rinviano ad altri articoli e commi. Si entra nel merito della discussione della cosiddetta “devolution” e delle novità del testo: la fine del bicameralismo perfetto, la conferma del “federalismo competitivo” introdotto dalla riforma del Titolo V del centrosinistra nel 2001, l’aumento a dismisura dei poteri del Primo ministro anche nei confronti dello stesso gabinetto di Governo, la riduzione del numero dei parlamentari.
PER UN “NO” ALLA RIFORMA COSTITUZIONALE
–devolution, dittatura del premier, ridimensionamento del Parlamento-
La campagna per il referendum costituzionale del 25-26 giugno si è svolta, al di là di ripicche e scaramucce, all’insegna della contrapposizione di facciata tra centrosinistra e centrodestra, ripetendo sostanzialmente lo spettacolo già visto in occasione del referendum dell’ottobre 2001 sul nuovo Titolo V della Costituzione (che riguarda i rapporti e la ripartizione di competenze tra Stato, Regioni ed enti locali) varato dall’Ulivo, in sede parlamentare, con soli 4 voti di scarto.
Da parte del centrosinistra non sono certo mancati i pronunciamenti a favore del NO. A ben vedere, però, le critiche alla riforma del centrodestra hanno via via riguardato non i princìpi ispiratori del testo costituzionale, bensì gli strumenti approntati dalla coalizione avversaria attraverso i quali realizzarli. Molto significativo l’appello dell’Associazione Italiana dei Costituzionalisti,scritto da Augusto Barbera (DS) e Stefano Ceccanti (anch’egli di area DS), intitolato “No al referendum per una riforma migliore”, largamente sottoscritto da costituzionalisti ed esponenti politici del centrosinistra, in cui si dichiara l’opposizione alla riforma del centrodestra «perché i meccanismi in essa prescelti distorcono o addirittura capovolgono i punti di partenza ispirati ad alcuni validi principi (legittimazione diretta del Primo Ministro, superamento del bicameralismo perfetto, riduzione del numero dei parlamentari, rafforzamento del sistema delle autonomie)». Dichiarazioni che non devono meravigliare e che richiamano contenuti della Bozza Amato, vale a dire i princìpi e le proposte per la riforma della Costituzione in tema di forma di Governo, Senato della Repubblica e “garanzie democratiche” sottoscritti dalcoordinamento dei segretari dei partiti del centrosinistra il 10 dicembre 2003. Del resto, si susseguono a più riprese dichiarazioni di esponenti del centrosinistra (ad esempio Luciano Violante) per un dialogo con la coalizione avversa per varare “insieme” una riforma costituzionale.
La presa in giro della devolution
L’appena affermata sostanziale identità di contenuti tra centrosinistra e centrodestra può sembrare contraddetta dalle norme della cosiddetta “devolution”. Norme che la Lega vanta come risultato concreto dell’appoggio dato al centrodestra, e che il centrosinistra denuncia come premessa per una spaccatura dell’Italia, e che sono state al centro della contrapposizione mediatica tra i due poli.
Entrando però nel merito, si scopre una sorprendente realtà: sulla cosiddetta “devolution”, le differenze tra la riforma costituzionale del centrodestra e quella approvata dall’Ulivo alla fine della scorsa legislatura sono quasi inesistenti. E la sensazione forte è che il battage sulla “devolution” serva anche a coprire gli stravolgimenti veri e pericolosi che questa riforma prevede riguardo ad esempio la forma di governo, il premier, il Parlamento, la formazione delle leggi.
Per capire il punto, occorre brevemente richiamare i contenuti della riforma del Titolo V approntata dal centrosinistra. Prima del 2001, le Regioni godevano di potestà legislativa entro limiti definiti dallo Stato e per determinate materie, vigendo il criterio della cosiddetta “competenza residuale” affidata allo Stato: per le materie non esplicitate nel vecchio art. 117, la competenza è dello Stato.
Il nuovo art. 117 approntato dal centrosinistra sulla ripartizione delle competenze tra Stato, Regioni ed enti locali capovolge invece la succitata impostazione: si elencano per la prima volta le materie di competenza esclusiva dello Stato (quindi la Costituzione limita le materie statali), assegnandone altre alla “legislazione concorrente” di Stato e Regioni (una formula nella pratica ambigua, secondo cui lo Stato detta i princìpi generali, le Regioni fanno leggi anche diverse tra loro ma per raggiungere i fini dettati dallo Stato), attribuendone altre ancora alla “legislazione esclusiva” delle Regioni. Inoltre (attenzione a questo punto) si stabilì che «spetta alle Regioni la potestà legislativa in riferimento ad ogni materia non espressamente riservata alla legislazione dello Stato» (art. 117, comma 4). In altre parole, ogni materia non esplicitamente assegnata allo Stato è automaticamente delle Regioni.
Veniamo al dunque. È oramai luogo comune che la cosiddetta “devolution” nuova formulazione abbia aggiunto le seguenti materie alla esclusiva competenza regionale: assistenza e organizzazione sanitaria; organizzazione scolastica, gestione degli istituti scolastici e di formazione, salva l’autonomia delle istituzioni scolastiche; definizione della parte dei programmi scolastici e formativi di interesse specifico della Regione; polizia amministrativa regionale e locale. Notiamo intanto che l’istituzione di un corpo di polizia regionale in aggiunta a quelli già esistenti (polizia comunale, polizia provinciale, Corpo Forestale dello Stato, Guardia di Finanza, Polizia di Stato e Carabinieri) rappresenterà una spesa aggiuntiva per il bilancio delle Regioni, che contraddice la vulgata del centrodestra che descrive questa riforma come strumento per la diminuzione della spesa pubblica. Quel che ci preme comunque in particolar modo sottolineare è che tali materie, in realtà, erano già di competenza regionale.
L’art. 117 riformato dal centrosinistra nel 2001 non le annovera infatti tra quelle di competenza statale. Con la riforma costituzionale del centrodestra, tali materie vengono soltanto esplicitamente elencate tra quelle di competenza regionale, ed aggiunte alla formulazione del succitato art. 117, comma 4.
Il fine pratico del ritocco può essere semmai di porre dei paletti ad eventuali pronunciamenti futuri della Corte costituzionale a riguardo: questo perché nella pratica la ripartizione delle materie di competenza (alcune dello Stato, alcune “concorrenti”, il resto alle regioni) ha lasciato spazio alle più ampie interpretazioni. Espressioni come quella per cui lo Stato legifera sulla “tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali”, ad esempio, sono nella pratica vaghe. Questo ha generato molteplici conflitti tra Stato e Regioni (in particolare sulla legislazione “concorrente”) sul diritto a legiferare in determinati ambiti, ed è toccato alla Corte costituzionale stabilire di volta in volta cosa significassero nella pratica quelle materie di competenza espresse nell’art. 117, commi 2 e 3, riformato dal centrosinistra nel 2001.
Esplicitare quelle materie (l’oggetto della “devolution”), dunque, già implicitamente di competenza delle Regioni, dovrebbe sgombrare il campo da ogni dubbio e ogni possible interpretazione della Corte. L’istruzione, ad esempio, è attualmente materia di legislazione concorrente. La riforma, inserendo la dizione “organizzazione scolastica” tra le materie di competenza residuale delle regioni, vuole limitare la possibile interpretazione di “istruzione” da parte della Corte costituzionale, escludendo dal suo concetto l’organizzazione scolastica.
In ogni caso, fermo restando la vaghezza delle materie, sarà sempre la Corte costituzionale a doverle interpretare. Rimane il fatto che scrivere “esclusiva” serve solo a ribadire esplicitamente ciò che implicitamente era già attribuito alle Regioni. La stessa Corte costituzionale, inoltre, anche con questa esplicitazione, potrebbe sempre delimitarne gli ambiti di legislazione. Più che giuridici, a ben vedere le motivazioni principali della “devoluzione” sono essenzialmente politiche. La Lega, esplicitando tali materie, si è trovata con in mano qualcosa da offire al proprio elettorato come risultato di questi 5 anni di governo; gli altri partiti della maggioranza glielo consentono a fini di trattative interne alla coalizione, mentre il centrosinistra ha uno strumento di propaganda per chiamare a raccolta contro la riforma del centrodestra e guadagnare consensi. Tutti così felici e contenti, alla faccia degli elettori ancora una volta presi in giro.
Il Titolo V della Costituzione riformato dal centrodestra
Le norme sulla cosiddetta “devolution” sono dunque un semplice contentino formale per la Lega di Bossi che non cambia sostanzialmente niente rispetto a quanto sancito dalla riforma del centrosinistra. Il pericolo di una sanità e scuola (relativamente) di serie A per le regioni ricche e di serie B per quelle più povere era già stato portato dall’Ulivo nel Titolo V della Costituzione con l’introduzione del principio della “tutela dei livelli essenziali” (cioè minimi), che è altra cosa dal voler migliorare le condizioni di vita in misura uniforme sul territorio nazionale. Comparando i testi, inoltre, si scopre che in merito alle competenze da ripartire tra Stato e regioni la riforma del centrodestra è addirittura più “centralista”, dato che segna il ritorno alla legislazione esclusiva dello Stato di importanti materie quali le norme generali sulla tutela della salute, la sicurezza del lavoro, le grandi reti strategiche di trasporto e di navigazione, l’ordinamento della comunicazione, l’ordinamento delle professioni intellettuali, l’ordinamento sportivo nazionale, la produzione strategica, il trasporto e la distribuzione nazionali dell’energia (art. 117, comma 2): tutte materie concesse alle Regioni dalla riforma costituzionale del 2001. Vanno rilevate come curiosità l’aggiunta al medesimo comma, come materie su cui lo Stato vanta la legislazione esclusiva, della promozione internazionale del sistema economico e produttivo nazionale e della politica monetaria e della tutela del credito, oltre a quelle già esistenti di moneta e tutela del risparmio.
Per il resto, la riforma del centrodestra conferma e per certi versi addirittura complica la confusa precedente riforma del centrosinistra. Viene confermata la subordinazione della potestà legislativa di Stato e Regioni alle normative dell’Unione Europea (art. 117, comma 1), anche se è stata tolta la subalternità ai «vincoli internazionali». Viene confermato il principio, introdotto dal centrosinistra, della «tutela dei livelli essenziali» delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali (art. 120, comma 2): obiettivo della Repubblica italiana non è dunque più cercare di eliminare le differenze di condizione economica e sociale. Fissato ad esempio a 10 i livelli essenziali delle prestazioni, che una Regione si trovi ad 11 ed un’altra a 100 non farebbe differenza: lo Stato non avrebbe obblighi.
Per altro, l’introduzione del riferimento a “livelli essenziali di prestazione” va necessariamente combinato con le ampie competenze affidate alle Regioni e, soprattutto, con il principio del “federalismo fiscale” (art. 119), già disciplinato dal centrosinistra (cosiddetta “autonomia” finanziaria di entrata e di spesa, applicazione di tributi ed entrate proprie, compartecipazioni al gettito di tributi erariali riferibile al loro territorio) e sempre da inquadrare nel contesto dei vincoli di bilancio di Bruxelles, da rispettare anche a livello locale. Ricordiamo che nell’art. 119, comma 3, si prevede «l’istituzione di un fondo perequativo per i territori con minore capacità fiscale per abitante»: una volta garantiti i “livelli essenziali”, però, le Regioni più ricche non avrebbero più alcun “dovere” di solidarietà da adempiere e potrebbero lecitamente adoperarsi per ostacolare interventi di riduzione delle proprie entrate fiscali a vantaggio delle Regioni più povere. Tenuto fermo questo quadro di “federalismo competitivo”, foriero di pericolose conseguenze per l’unità nazionale, appare decisamente curiosa la pretesa di poter annullare qualsiasi atto legislativo delle Regioni attraverso il vago richiamo al pregiudizio di quell’“interesse nazionale” da porre al vaglio del «Parlamento in seduta comune» che potrebbe condurre all’annullamento di una legge regionale (art. 127, comma 2): di quale pregiudizio potrebbe infatti parlarsi se è la Costituzione a fissare le competenze e a dire cosa le Regioni possono e non possono fare? Ed entro quali confini verrà esercitato il “pregiudizio dell’interesse nazionale”?
Ci si trova di fronte in realtà ad un vero e proprio pasticcio giuridico. Dopo aver quindi riaffermato la rigida ripartizione di competenze legislative adottate dal nuovo Titolo V dell’Ulivo (legislazione esclusiva e legislazione concorrente con competenze distinte) e la succitata costituzionalizzazione del principio della diversità di trattamento attraverso la formula della “tutela dei livelli essenziali”, ecco spuntare fuori dal cilindro una forma di controllo sulle leggi regionali da affidare agli equilibri politici del momento (controllo parlamentare) e non al giudizio della Corte Costituzionale sulla base della ripartizione di competenze. È in sostanza aperta la porta ad innumerevoli ingerenze e conflitti.
Il centrodestra, così, da un lato conferma il sistema di ripartizione delle competenze legislative attuato dal centrosinistra che, al di là di una discussione di merito sull’impianto e finalità complessive delle due riforme da innestare nel processo di unificazione europea, ha già dato ampia prova d’inefficienza: vedasi l’imponente numero di conflitti Stato-Regioni innanzi alla Corte Costituzionale. Dall’altro, il centrodestra complica ulteriormente il tutto introducendo il meccanismo arbitrario dell’art. 127, comma 2 per annullare eventualmenti atti delle Regioni emanati sulla base delle competenze loro attribuite.
Il principio di sussidiarietà
Un cenno a parte merita il principio di sussidiarietà orizzontale. Tale innovativo principio è stato introdotto nel nuovo Titolo V approvato dall’Ulivo con l’art. 118, comma 4: «Stato, Regioni, Città metropolitane, Province e Comuni favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà». Un articolo già del tutto chiaro, ma che il centrodestra si è preoccupato di ribadire all’art. 114, comma 1: «La Repubblica è costituita dai Comuni, dalle Province, dalle Città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato, che esercitano le loro funzioni secondo i princìpi di leale collaborazione e di sussidiarietà».
Il combinato disposto dei succitati articoli è tale da stravolgere anche il rispetto dei princìpi e delle tutele stabilite nella Prima parte della Costituzione. In un sol colpo, i compiti della Repubblica (attenzione, non il solo Stato) diventano la promozione degli interessi d’impresa nell’esercizio di funzioni pubbliche, senza che vengano definiti un minimo di criteri. “Riconoscere” e “favorire” l’attività dei “cittadini, singoli e associati” (in pratica, chi mai saranno questi “cittadini” che si preoccuperanno di erogare ad esempio energia elettrica? Persone normali o forse grandi imprese?) per l’esercizio di funzioni pubbliche significa aprire la strada alla mercificazione dei servizi pubblici, su cui lo Stato non dovrà interferire, ma semmai intervenire solo quando ci sarà da mettere mano al portafoglio. In linea di principio, infatti, il “riconoscere e favorire” implica un obbligo a non intervenire, a meno che il privato non sia totalmente assente o manifestamente incapace. Ma questo chi potrà legittimamente stabilirlo? Insomma ci sono spazi per maneggi ed imbrogli.
Il premierato del centrodestra e quello del centrosinistra
Nella riforma costituzionale del centrodestra, il Capo del Governo non è più chiamato presidente del Consiglio dei Ministri, bensì Primo Ministro. Questa non è solo una sfumatura semantica ma rispecchia esattamente i poteri nel Governo.
La politica del Governo sarà infatti non più decisa dall’intero Consiglio dei Ministri ma dal solo Primo ministro (art. 95). Fino ad oggi, infatti, i ministri sono nominati dal Presidente della Repubblica (su indicazione del Presidente del Consiglio) e la politica del Governo è diretta dal Presidente del Consiglio che coordina l’attività dei Ministri. Con la riforma, invece, il Primo ministro nomina e revoca gli altri ministri a suo insindacabile giudizio (art. 95, comma 1) e la politica del Governo è determinata dal Primo ministro che dirige l’attività dei Ministri (art. 95, comma 2). Nel Consiglio dei Ministri il Primo ministro non è più un primus inter pares, ma il capo assoluto.
Il Primo Ministro verrà eletto direttamente dal popolo (art. 92, comma 2) e non necessita della fiducia della Camera per insediarsi (art. 94, comma 1): la Camera dei deputati si esprimerà con un “voto sul programma”, senza fare menzione della necessità della fiducia e senza prevedere cosa succeda in caso di voto negativo. Il Primo Ministro, anche senza dimettersi, può imporre al Presidente della Repubblica di sciogliere la Camera portando così il Paese a nuove elezioni politiche (art. 88, comma 1). In questo modo il Primo Ministro gestirà le elezioni nella pienezza dei propri poteri.
Sono queste alcune delle principali novità del modello di premierato realizzato dal Centrodestra, uno dei pezzi forti del progetto di revisione costituzionale definitivamente approvato in quarta lettura dal Senato il 16 novembre 2005, che però, va notato, si colloca nel solco delle indicazioni contenute nella Bozza Amato del dicembre 2003, sottoscritta da tutti i leader del centrosinistra: «Per garantire il rispetto della volontà politica degli elettori e per evitare il rischio di uno scollamento tra cittadini e sistema politico, è giusto che non siano legittimati i cosiddetti ribaltoni. In questo senso, si conviene sul fatto che debba rendersi noto, contestualmente alla pubblicazione del programma elettorale, il nome del candidato alla guida del Governo, senza tuttavia farne oggetto di separata menzione nella scheda elettorale. Egli sarà poi nominato dal Presidente della Repubblica e investito della fiducia iniziale del Parlamento (o della Camera). In caso di sfiducia, e su sua proposta, vi sarà lo scioglimento a meno che una mozione costruttiva votata dalla maggioranza iniziale, comunque autosufficiente anche se integrata o eventualmente ridotta, non proponga un diverso candidato».
La Bozza Amato prevedeva già dunque l’istituzione del premierato (ed anche delle cosiddette norme antiribaltone), che indubbiamente il centrodestra ha ripreso e varato in una versione più hard. Del resto, anche nel programma elettorale dell’Unione (febbraio 2006) si afferma di voler riprendere le elaborazioni della Commissione Bicamerale (1997) di D’Alema, «un progetto su cui maggioranza e opposizione avevano trovato un largo accordo». Sul premierato, centrosinistra e Rifondazione concordano nella «attribuzione al Primo Ministro del potere di proporre al Presidente della Repubblica la nomina e revoca di ministri, viceministri e sottosegretari; una migliore regolamentazione della questione di fiducia, con la previsione di specifici limiti al suo esercizio; la possibilità di sfiduciare il Primo Ministro solo attraverso una mozione di sfiducia costruttiva, con l’esplicita indicazione di un candidato successore».
La sfiducia costruttiva
Se la riforma votata dal centrodestra verrà confermata dagli elettori, la Camera dei Deputati potrà essere facilmente sciolta su richiesta del Primo Ministro o in conseguenza delle sue dimissioni. Unica possibilità per evitare lo scioglimento anticipato, «una mozione presentata e approvata (…) dai deputati appartenenti alla maggioranza espressa dalle elezioni in numero non inferiore alla maggioranza dei componenti della Camera, una mozione nella quale si dichiari di voler continuare nell’attuazione del programma e si designi un nuovo Primo ministro (nuovo art. 88 e, quasi eguale, art. 94, comma 5)».
In pratica, la fiducia al nuovo primo ministro verrebbe ad essere contemporanea alla sfiducia espressa nei confronti del precedente (la cosiddetta “sfiducia costruttiva”). Si noti però bene: la mozione di sfiducia dovrà essere sostenuta da un numero di deputati (appartenenti alla maggioranza espressa dalle elezioni) non inferiore alla maggioranza dei componenti della Camera, ossia non inferiore a 260 su 518.
Ciò significa che al premier da rimuovere sarà sufficiente contare sul sostegno di pochi fedelissimi per impedire qualsiasi sfiducia costruttiva. Il numero dei deputati sufficienti ad impedire la sfiducia costruttiva è dato sottraendo 260 dal numero di deputati della maggioranza. Più è piccola la distanza numerica tra maggioranza ed opposizione e più è a rischio la possibilità di approvare una mozione di sfiducia costruttiva in quanto minore è il numero di deputati sufficiente a farla fallire. Nel caso limite di una maggioranza di 260 deputati contro i 258 dell’opposizione1 sarà sufficiente che un solo deputato della maggioranza non firmi la mozione di “sfiducia costruttiva” per farla fallire. A quel punto la Camera dovrà decidere se sfiduciare il Primo Ministro (sfiducia normale, non costruttiva), e così facendo provocare lo scioglimento della Camera e nuove elezioni, oppure confermare la fiducia al Primo Ministro in carica.
Allo stesso modo, però, lo scioglimento potrebbe essere provocato anche per iniziativa di una piccola minoranza interna alla maggioranza di governo, in quanto il Primo ministro sarà costretto alle dimissioni «qualora una mozione di sfiducia venga respinta con il voto determinante di deputati non appartenenti alla maggioranza espressa dalle elezioni» (nuovo art. 94, comma 4). In altre parole, la mozione di sfiducia, anche se respinta, provocherà lo stesso le dimissioni del Primo ministro, e conseguente scioglimento anticipato della Camera, se i voti della maggioranza uscita vincente dalle elezioni non dovessero raggiungere, da soli, la maggioranza assoluta dei componenti la Camera dei Deputati.
Se le modifiche costituzionali verranno quindi confermate, in conseguenza degli automatismi legati alle norme “antiribaltone” il Parlamento sarà costretto a subire qualsiasi ricatto provenga dal Primo Ministro, come anche da parte di qualche settore minoritario interno alla maggioranza uscita vincente dalle elezioni. Si pensi a quanto successo in seguito alle crisi politiche delle maggioranze dei governi Berlusconi nel 1994 e Prodi nel 1998. Con il nuovo testo costituzionale, entrambe le crisi si sarebbero immediatamente risolte con lo scioglimento anticipato delle Camere, senza alcuna possibilità di passaggi tecnici o di diverse soluzioni parlamentari. Come la logica del principio antiribaltone impone, il sistema è forzatamente portato a risolvere con lo scioglimento tutte le tensioni politiche all’interno della maggioranza di governo. Uniche eccezioni, la possibilità della “sfiducia costruttiva” o l’azione di Governi (di fatto) “di minoranza”, con il premier cioè che fa approvare dei progetti di legge anche grazie, eventualmente, al possibile soccorso (o l’assenza) dei voti di parte dei deputati dell’opposizione.
Eppure quelli che appaiono punti di forza del futuro Premier, potrebbero rivelarsi anche i suoi maggiori punti di debolezza. Il ricatto dello scioglimento anticipato può valere, infatti, soltanto in presenza di uno zoccolo duro di forze politiche in grado di garantire la rielezione (sua e/o della maggioranza che lo sostiene). Ecco, quindi, come le parti potrebbero invertirsi, con il Premier e la maggioranza che lo sostiene costretto a subire i ricatti delle forze minori per non essere trascinato, dal meccanismo antiribaltone, in elezioni dall’esito più che incerto senza quel 2-4% di voti che nei sistemi maggioritari è in grado di fare la differenza.
Da tutto questo quadro di misure e contro misure emerge una scomoda verità per i fautori della “logica antiribaltone”: qualsiasi rimedio si rivela peggiore del male.
Il presidente della Repubblica
Con la riforma del centrodestra, il presidente della Repubblica ha il nuovo compito di «garante della Costituzione e dell’unità federale della Repubblica» (art. 87, comma 1). Che significa essere «garanti della Costituzione»? Non è compito della Corte Costituzionale? In quali atti, poi, e con quali modalità il Presidente potrà esercitare questa funzione? E se questa attribuzione si sostanzierà in una invasione di campo dell’attività della Corte costituzionale? Allo stesso modo, come eserciterà il presidente il proprio compito di «garante dell’unità federale della Repubblica»? Intromettendosi negli atti del Parlamento e del Governo?
Il presidente della Repubblica potrà inoltre nominare il vicepresidente del Consiglio Superiore della Magistratura, «nell’ambito dei componenenti eletti dalle Camere»: in questo modo, il CSM sarà un’assemblea i cui organi supremi (presidente e vicepresidente) non sono di sua scelta. Attualmente, il CSM elegge, tra le proprie fila di magistrati, il vicepresidente, che per prassi consolidata è di fatto il “vero presidente”, dato che il Capo dello Stato non prende parte ai suoi lavori. Ma un Capo dello Stato “interventista” potrebbe decidere di dirigere i lavori del CSM, tanto più che questi sceglierà lui stesso il proprio vice.
Se il Presidente guadagna così questi poteri, ne perde al contempo altri. Intanto non tutti i Presidenti della repubblica potranno nominare Deputati a vita poiché l’art. 59 recita: «il numero totale dei deputati di nomina presidenziale non può in alcun caso essere superiore a tre». Inoltre, mentre ora il Presidente può, di propria iniziativa, sciogliere una o entrambe le Camere, con la riforma egli perde questa discrezionalità e sarà costretto a sciogliere la Camera (il Senato non si scioglie mai) su ordine altrui. Il Presidente infatti potrà sciogliere la Camera (art. 88) solo in caso di: richiesta del Primo Ministro, morte o grave impedimento del Primo Ministro, dimissioni del Primo Ministro, voto di sfiducia della Camera. Tutte, cioè, motivazioni indipendenti dalla sua volontà. Il Presidente sarà dunque mero esecutore di volontà altrui (Primo Ministro o Camera) e questa è la limitazione più grave rispetto alle attuali competenze presidenziali. Il presidente non avrà poi più il potere di autorizzare la presentazione alle Camere dei disegni di legge del Governo (art. 87).
Il “Bicameralismo asimmetrico”. Il Senato federale
Scompare il “bicameralismo perfetto” disegnato dai costituenti del 1948. Esistono due Camere: la Camera dei Deputati ed il Senato Federale della Repubblica, ciascuna con il proprio ambito legislativo. Le due Camere non svolgeranno le medesime attività, ma una sorta di separazione delle competenze che nella propaganda degli ideatori dovrebbe esaltare il diverso ruolo attribuito alle due Camere e semplificare il processo legislativo. Questo sia per quanto riguarda il rapporto con il Governo, dato che il voto di fiducia spetta alla sola Camera dei Deputati ed è solo questa Camera che potrà essere sciolta anticipatamente in conseguenza dell’impossibilità di proseguire la legislatura con la maggioranza uscita vincente dalle elezioni; sia sotto il profilo del processo di formazione delle leggi, con competenze distinte per le due Camere.
Dopo l’approvazione di una legge da parte della Camera dei Deputati per le materie di sua esclusiva competenza, è previsto un solo passaggio nel Senato Federale. Sulle eventuali modifiche proposte dal Senato, la Camera decide nuovamente ma in via definitiva, senza alcuna necessità di un eventuale ritorno della legge al Senato Federale, accorciando così i tempi di approvazione delle leggi. Stesso procedimento per le materie attribuite alla competenza esclusiva del Senato Federale, che non vota la fiducia al governo e che non subisce le conseguenze (scioglimento anticipato) di una crisi di Governo.
Uno degli aspetti più “originali” di questo meccanismo di formazione delle leggi, però, è stato quello di assegnare al Senato federale, non legato alle sorti del Governo da alcun tipo di rapporto fiduciario, la competenza esclusiva anche per alcune materie attinenti la sfera tipica dell’azione di governo, quali la determinazione dei princìpi fondamentali per le materie di legislazione concorrente tra Stato e Regioni riservate alla legislazione dello Stato. Di fronte a tanta incongruenza il nuovo testo prevede, si fa per dire, dei correttivi. Nel caso, infatti, «il Governo ritenga che proprie modifiche a un disegno di legge, sottoposto all’esame del Senato ai sensi del secondo comma, siano essenziali per l’attuazione del suo programma approvato dalla Camera ovvero per la tutela delle finalità di cui all’articolo 120, secondo comma, il Presidente della Repubblica, verificati i presupposti costituzionali, può autorizzare il Primo ministro ad esporne le motivazioni al Senato federale, che decide entro trenta giorni. Se tali modifiche non sono accolte dal Senato, il disegno di legge è trasmesso alla Camera dei deputati che decide in via definitiva a maggioranza assoluta dei suoi componenti sulle modifiche proposte» (nuovo art. 70 quinto comma).
Ad aggiungere poi confusione a
confusione, l’inevitabile necessità di risolvere eventuali problemi di
competenze. Chi e come deciderà a quale Camera spetti la competenza esclusiva
sui progetti di legge in discussione? Un organismo di controllo tipicamente
giurisdizionale, quale potrebbe logicamente essere la Corte Costituzionale, o
un organismo di tipo politico?
Il nuovo testo costituzionale ha preferito affidarsi agli umori e agli
equilibri politici del momento: «I Presidenti del Senato federale
della Repubblica e della Camera dei deputati, d’intesa tra di loro, decidono le
eventuali questioni di competenza tra le due Camere, sollevate secondo le norme
dei rispettivi regolamenti, in ordine all’esercizio della funzione legislativa.
I Presidenti possono deferire la decisione ad un comitato paritetico, composto
da quattro deputati e da quattro senatori, designati dai rispettivi Presidenti.
La decisione dei Presidenti o del comitato non è sindacabile in alcuna sede» (nuovo art. 70 sesto comma).
Ci troviamo dunque di fronte ad un “bicameralismo asimmetrico” in cui si attribuiscono competenze tipiche dell’azione di governo ad un Senato che non vota la fiducia e non subisce le conseguenze delle eventuali crisi di Governo. La Camera, votata dagli elettori per il Governo del Paese con tanto di indicazione del Primo Ministro, solo a seconda degli umori del Presidente della Repubblica potrà avere, o non avere, voce in capitolo riguardo la determinazione dei princìpi fondamentali nell’ambito della legislazione concorrente, in quanto prioritariamente affidati al Senato Federale. Non solo: anche in ordine alla corretta attribuzione delle competenze, affidata ai Presidenti delle Camere, è facile prevedere il moltiplicarsi del numero dei conflitti tra Stato e Regioni. Un meccanismo, dunque, che non farà altro che produrre conflitti e inefficienze. Una confusione che il centrosinistra rileva e denuncia, ma che di fatto andrà a riproporre giacché condivide l’assunto di superare«l’attuale bicameralismo paritario, ovvero istituendo un Senato che sia camera di effettiva rappresentanza delle regioni e delle autonomie» (programma dell’Unione, febbraio 2006). Sarà curioso –diciamo così– vedere le proposte reali del centrosinistra.
La riduzione del numero dei parlamentari
Con la riforma costituzionale all’esame degli elettori con il referendum del 25-26 giugno 2006 «viene ridotto il numero dei parlamentari: da 950 a 773, con significativo risparmio per le finanze pubbliche». Questo ci dice il «decalogo della riforma costituzionale» ad opera del leghista Roberto Calderoli. Per risposta, il controdecalogo a cura del centrosinistra ribatte che «la riduzione del numero dei parlamentari viene rinviata al 2016 per favorire gli attuali capi e capetti. Nel lungo periodo c’è tempo anche per ridurre la riduzione; per ora c’è l’effetto di un annuncio demagogico che mette in evidenza che tale riduzione non scatterà immediatamente, ma soltanto nel 2016».
Nella sostanza, quindi, le ragioni
per il NO alla riforma da parte del centrosinistra divergono da quelle per il
SI soltanto per i tempi per l’entrata in vigore, temendo addirittura dei
ripensamenti circa questa riduzione. Peraltro, nelle intenzioni del
centrosinistra, vi è una riduzione ancora più ampia: proposte che sicuramente
solleticano il sentire comune popolare, legittimamente nauseato dall’attuale
classe politica sempre più lontana dai bisogni dei cittadini.
Peccato, però, che questi umori popolari nei confronti della politica
vengano quasi sempre utilizzati dalla politica stessa per ridurre gli spazi
della rappresentanza democratica attraverso meccanismi che, in un modo o
nell’altro, siano comunque in grado di cancellare dalla rappresentanza
istituzionale ampi settori di elettorato. Tagliare il numero dei parlamentari
significa infatti ridurre il numero dei seggi. Questo elemento, combinato con
il meccanismo elettorale maggioritario, concorrerà a ridurre ancor più la
corretta e democratica rappresentanza degli interessi sociali.
Al Senato, con l’attuale legge
elettorale (che può essere riassunta con la formula “maggioritario di
coalizione con distribuzione proporzionale all’interno delle coalizioni”),
nelle Regioni con meno seggi a disposizione si sono avuti casi nei quali
alcune liste minori non hanno conquistato seggi, e questo pur appartenendo alla
coalizione vincente ed avendo superato la soglia di sbarramento del 3%. Questo
per effetto di quella che tecnicamente viene definita “soglia di sbarramento
implicita”, dipendente dal tipo di ripartizione, dal numero dei partiti in
lizza e, soprattutto, dal numero delle circoscrizioni elettorali ed il numero,
quindi, dei seggi a disposizione per ogni circoscrizione (nel caso in esame le
Regioni)2. In una regione come il Molise, ad
esempio, con soli 2 seggi a disposizione, si è avuto il caso di partiti come
Rifondazione, Di Pietro-Italia Valori ed
Alleanza Nazionale che non hanno ottenuto alcun seggio pur avendo superato in
coalizione il 3%, e conseguendo rispettivamente il 5,4%, l’8,5% ed addirittua
il 14,2%. Ma al di là di questo caso particolare, nelle altre Regioni con più
seggi a disposizione si deve registrare l’esclusione dalla ripartizione dei
seggi di liste con risultati ben al di sopra del 4%. È quindi evidente che,
anche con l’attuale legge elettorale, la diminuzione dei seggi a disposizione
delle singole Regioni provocherà l’ulteriore innalzamento della “soglia di
sbarramento implicita”, il tutto a danno delle forze politiche minori.
Ma anche in termini di efficienza sul piano dei costi la riforma rischia di
produrre efetti del tutto opposti a quelli propagandati. La riduzione dagli
attuali 630 deputati ai 518 previsti dalla riforma appare soltanto come una
diminuita efficienza della capacità di approfondire le questioni, che
costringerà inevitabilmente ad “esternalizzare”, in misura maggiore, gran parte
del lavoro parlamentare verso l’esercito degli ignoti collaboratori che già ora
assolve una buona percentuale del lavoro parlamentare. Basti pensare alla sola
legge finanziaria, un volume di carta da leggere in grado di riempire una
stanza da letto: ma chi è che può ancora credere che dietro tutta questa
produzione vi siano i soli 640 deputati? Pensare quindi che i futuri
parlamentari non trovino il modo per finanziare l’accresciuta necessità di collaboratori
è una pia illusione. Le spese della politica non diminuiranno affatto con la
diminuzione dei parlamentari, ma anzi è forte il rischio che possano aumentare.
Indipendenza
20 giugno 2006
1 Eventualità attualmente impossibile con l’attuale sistema elettorale, il “maggioritario di coalizione” varato dal centrodestra, con il suo “premio di maggioranza” in seggi per la coalizione vincente (foss’anche per un solo voto).
2 La nuova legge elettorale non ha nulla a che vedere con il sistema proporzionale. Il sistema della distribuzione dei seggi, infatti, è proporzionale soltanto all’interno delle coalizioni. Diversamente, stabilita la coalizione vincente, fosse anche solo al 25-30% (nel caso che ad esempio si presentino al voto tre coalizioni di pari forza), questa riuscirebbe ad ottenere la maggioranza parlamentare, realizzandosi così un “maggioritario di coalizione” al posto di quello dei collegi uninominali. Nel caso che nessun partito o coalizione riesca a raggiungere l’assegnazione di almeno 340 seggi alla Camera (il 55%), al partito o alla coalizione che avrà ottenuto un voto in più degli altri verrà assegnato un premio di seggi sino al raggiungimento di questa quota. Per l’assegnazione della maggioranza parlamentare, quindi, il sistema è tipicamente maggioritario, allo stesso modo dei collegi uninominali: chi ottiene un voto in più, prende l’intera posta. Continuare a definire, quindi, l’attuale legge elettorale di tipo proporzionale, serve soltanto per alimentare la confusione. Tanto più che anche per l’assegnazione dei restanti seggi agli sconfitti, il sistema prevede sì la ripartizione di tipo proporzionale, ma anche delle soglie di sbarramento. Sommando quindi le due cose, premio di maggioranza e quote di sbarramento, della logica proporzionale rimane decisamente nulla.
***
LA STRATEGIA DELLE RIFORME ISTITUZIONALI
–Dal rapporto della Commissione Trilaterale alla riforma costituzionale del centrodestra
Con il referendum costituzionale del 25-26 giugno 2006, una opinione pubblica frastornata dovrà scegliere se respingere o confermare lo snaturamento di tutto l’ordinamento della “Repubblica delle autonomie”, “democratica” e “antifascista”, “fondata sul lavoro”, nata dalla Resistenza.
Il pericolo è che tutto si consumi nella inconsapevolezza organizzata dalla “sinistra di governo” che, anziché denunciare il rivolgimento antidemocratico squadernato dalla maggioranza berlusconiana, dice di votare NO perché quella del centrodestra è una riforma costosa e confusa (sic!), e non perché introduce la “dittatura del premier” e del governo sul bicameralismo di due Camere separate per compiti e per funzioni, come era nel bicameralismo sette-ottocentesco.
Siamo quindi ad una sorta di ultima spiaggia per una Costituzione democratico-sociale detta e riconosciuta come di democrazia-avanzata, rispetto a tutte quelle di modello liberale che, come quella statunitense, sono ferme al sette-ottocento, con forme istituzionali fondate sul dominio dall’alto di un “capo” e del governo sul Parlamento e sulla società. Costituzioni elaborate quando non c’erano ancora né lo Stato democratico né le concezioni democratiche moderne che nel 1948 diedero, con la Costituzione italiana, forma giuridica a quelle che erano le domande e le aspirazioni popolariuscite provate e rese consapevoli da un secolo di monarchia/liberale, 20 anni di fascismo, due guerre mondiali e dalla Resistenza popolare e guerra di Liberazione. Il che dimostra che diritto e Stato hanno forma storicamente mutevole, contro le pretese delle ideologie giuridiciste e delle concezioni astratte del diritto che vogliono cristallizzare e fermare alle origini settecentesche la teoria giuridica.
Superando tali giuridicismi e conferendo un “uso alternativo” all’applicazione del diritto in funzione delle aspirazioni popolari e sociali, è derivata una originalità della Costituzione italiana, che rischia di essere spazzata via se il 25 giugno non vincerà il NO alla riforma autoritaria del centrodestra, bloccando i progetti delle classi dominanti capitalistiche fautrici di una forma di governo di tipo “autoritario” condivisa da entrambi i poli. Si vuole cancellare la Costituzione in nome dell’ideologia del primato del mercato d’impresa, e schiacciare la democrazia sotto il potere privato dell’impresa capitalista, utilizzando anche princìpi come quello della sussidiarietà dello Stato rispetto alle imprese anche nell’esercizio delle funzioni pubbliche. Principio introdotto nel 2001 con la riforma del Titolo V dell’Ulivo, il cui referendum confermativo del 7 ottobre 2001 vide recarsi alle urne solamente il 35% del corpo elettorale. Una riforma che aprì la strada a quella del centrodestra che, se il 25 giugno risultasse vincitore il SI, stravolgerebbe le forme di Stato e di governo della Repubblica definite dalla Seconda Parte della Costituzione.
Questo nel mentre lo stesso Comitato per il NO al progetto di Berlusconi presieduto da Oscar Luigi Scalfaro, dice solo di difendere ma non di rilanciare nella sua integrità quei valori e princìpi sociali che rendono così peculiare la Prima Parte della nostra Costituzione. Questa Prima Parte la si vuole rendere lettera morta modificando la Seconda nelle forme di organizzazione politica-economica e sociale, che i partiti costituenti del 1948 concepirono quanto più possibile coerente con i princìpi della Prima.
La valenza della Prima Parte della Costituzione
Il punto è decisivo e merita di essere circostanziato. La Prima Parte della nostra Costituzione non solo è stata innovativa nel campo dei diritti civili –cari alla cultura liberale– e dei diritti sociali (entrambi storicamente minati in nome del “liberismo”), ma soprattutto ha promosso un intervento diretto a «rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese» (art. 3 della Costituzione).
È a causa di queste indicazioni pienamente democratiche che la nostra Costituzione è sempre stata “travisata” e “perseguitata” (da forze occulte e palesi, nazionali e internazionali). Essendo la nostra una Costituzione “interventista” in campo economico-sociale, indicante precisi orientamenti allo Stato e alle stesse forze politiche e sindacali, senza cui, dice la Costituzione, non si realizza né l’eguaglianza giuridica, né il pieno sviluppo della persona umana, con grave danno alla stessa democrazia.
La nostra Costituzione repubblicana, dunque, redatta sotto la spinta di partiti e forze sociali democratiche e antifasciste, non solo ruppe con il modello monarchico/liberale dello Statuto Albertino, in cui la fonte primaria di legittimazione del potere politico era rappresentata dal re e dalla sua dinastia che governavano per volere divino. Essa ha soprattutto inaugurato un inedito modello di democrazia nel campo dei poteri politico-economico-sociali, col nesso stringente tra democrazia politica e democrazia sociale, tra forma di governo (sistema di rapporti e modi in cui viene ripartito il potere tra gli organi supremi dello Stato) e forma di Stato (il modo in cui è regolato il rapporto tra “governanti” e “governati”, cioè tra istituzioni e società, quindi l’articolazioneterritoriale del potere) finalizzato ai compiti che lo Stato si propone di raggiungere ed ai valori cui ispira la propria azione, per cui tutti i rapporti istituzionali sono organizzati in maniera strumentale e per fini non di mantenimento ma di trasformazione dei rapporti sociali, come nessuna Costituzione liberale può e potrebbe mai riconoscere.
Il nostro modello costituzionale si è così posto all’avanguardia delle Costituzioni post-fasciste, in quanto legittimante quel processo di trasformazione della società e dello Stato capitalistico perseguibile con il concorso pluralistico dell’azione delle forze sociali e politiche, costituzionalizzazione del diritto di sciopero incluso. In questo contesto il Parlamento, autonomo dal potere esecutivo che invece lo domina nei regime liberaldemocratici, costituisce il luogo di istituzionalizzazione della sovranità popolare anche sui poteri economici, con il controllo politico e sociale della produzione e delle imprese.
La nostra Costituzione, dunque, se vuol essere anche solo difesa, deve essere rilanciata nei suoi valori e novità sociali, ribadendo il nesso indissolubile tra Prima e Seconda Parte che centrosinistra in primis e centrodestra condividono nel voler spezzare, non potendosi difendere i valori della Prima Parte contraddicendoli con l’attacco alla Seconda pensata e finalizzata ad attuare quelli.
Attacco alla democrazia. Il rapporto della Commissione Trilaterale del 1975
Questo ben sanno le oligarchie politiche ed economiche ‘nazionali’ e soprattutto transnazionali che mai si proclamano contro Princìpi e valori della democrazia, ma in nome della democrazia (cfr., ad esempio, anche il Piano di Rinascita democratica di Gelli) vogliono “mezzi” utili non ai fini della democrazia ma del primato del mercato sulla democrazia. Le premesse dell’attacco organico alla Seconda Parte della Costituzione sono rintracciabili nella famosa ma obliata riunione della Commissione Trilaterale del 1975.
La Commissione Trilaterale (www.trilateral.org) è un’organizzazione fondata nel 1973 per iniziativa dell’influente oligarca USA David Rockefeller, ex presidente della Chase Manhattan Bank. All’atto della fondazione, il direttore operativo era Zbigniew Brzezinski. Questi successivamente divenne Consigliere Speciale per la Sicurezza USA sotto la presidenza Carter, evidenziandosi come importante sostenitore dei finanziamenti ed aiuti in armi ed addestramento dei servizi segreti USA ai mujaheddin afghani1.
La Trilaterale ha sede sociale a New York eriunisce alcune centinaia fra i più influenti personaggi del mondo industriale e finanziario, politico, dei mass media, universitario (persino sindacalisti) di Stati Uniti, Europa e Giappone. L’obiettivo dichiarato è quello di promuovere una cooperazione più stretta tra queste tre aree, richiamate dal nome stesso, Tri-lateral appunto: l’Europa, già allora, era considerata come un’entità geopolitica unitaria, ovviamente subordinata agli USA, le cui oligarchie dettano le strategie che Londra, Roma, Bonn, Parigi, Tokio, eccetera sono chiamate ad applicare.
Il primo studio della Commissione Trilaterale è significativamente intitolato The Crisis of Democracy: Report on the Governability of Democracies (New York University Press, 1975), un lavoro concotto da Michel Crozier, Samuel Huntington e Joji Watanuki, tradotto in Italia dalla Franco Angeli (La crisi della democrazia, 1977) con una prefazione del defunto Gianni Agnelli2.
Il rapporto è pervaso da una profonda avversione per la democrazia, con forti critiche al Parlamento ma soprattutto alla non passività di sempre più ampi strati della popolazione. Lo studio denunciava una debolezza strutturale degli esecutivi rispetto al potere legislativo ed esprimeva turbamento per la crescente partecipazione popolare di quegli anni. La democrazia, sostiene la Trilaterale, finisce per coinvolgere troppo i cittadini, li “protegge” con il Welfare State e allo stesso tempo li rende attivi, sospingendoli a un eccesso di rivendicazioni che in ultima istanza pregiudicano la funzionalità dell’economia capitalistica. Sotto accusa finisce anche il ceto intellettuale, giudicato irresponsabile e inaffidabile, ed i media, che distorcerebbero le informazioni, amplificando i problemi sociali. Un forte richiamo è indirizzato anche alle «istituzioni responsabili dell’indottrinamento» dei giovani –scuole, media, chiese, eccetera– per agire ed invertire quella che la Trilaterale chiamava appunto “la crisi della democrazia”.
Se in precedenza l’obiettivo condiviso, almeno a parole, dalle forze politiche che si definivano “democratiche” era di ampliare gli spazi di partecipazione dei cittadini ed allargare le procedure democratiche anche verso ambiti esterni alla sfera politica come l’impresa, dalla Trilaterale in avanti la musica cambia. Per i soci della Trilaterale, la crescita della democrazia sociale tra gli anni 1967-1975, traducendosi in un pluralismo politico e sociale –da loro chiamato frantumazione– e in una conseguente capacità di mobilitazione sociale e politica ed anche di insorgenza, aveva raggiunto il massimo di democrazia compatibile con il sistema capitalistico. Per difendere il sistema, diventa prioritaria –per i soci della Trilaterale– l’ideologia della “governabilità”.
Il Piano P2 di “rinascita democratica”
È a partire da quegli anni che vengono formulate proposte di “riforme istituzionali”, anche in programmi “occulti” come il Piano di “rinascita democratica”, documento della loggia massonica “Propaganda 2”, tra i cui affiliati figuravano militari, magistrati, politici, imprenditori, giornalisti. Il piano della P2 di Licio Gelli, che si ritiene risalga al 1975-1976, ebbe notorietà quando fu sequestrato, nel luglio 1982, all’aeroporto di Fiumicino, nel sottofondo di una valigia di Maria Grazia Gelli, figlia di Licio. Sulla “preveggenza” di quel programma, lo stesso Licio Gelli, intervistato da la Repubblica (28 settembre 2003), avrebbe poi detto: «Guardo il Paese, leggo i giornali e penso: ecco qua che tutto si realizza poco a poco, pezzo a pezzo. Forse sì, dovrei avere i diritti d’autore. La giustizia, la tv, l’ordine pubblico. Ho scritto tutto trent’anni fa».
Un piano che appunto si proclama “di rinascita democratica”, in cui, analogamente a quanto scritto nel rapporto della Trilaterale, si afferma di voler difendere la “democrazia”, intendendo in realtà il funzionamento del sistema capitalistico e la preminenza delle oligarchie economiche a danno delle sempre più subalterne classi dominate. Una vera e propria contraddizione in termini, che può essere spiegata, con le dovute differenze, facendo ricorso ad una categoria usata dallo storico marxista Domenico Losurdo (vedasi, ad esempio, l’ultima sua opera, Controstoria del liberalismo, Laterza, 2005) a sua volta ripresa da alcuni studiosi statunitensi: quella di Herrenvolk democracy, di democrazia che vale solo per il «popolo dei signori», volta ad evidenziare come il “governo della legge” nell’ambito della comunità bianca negli USA si sia caratterizzato sin dall’inizio con la schiavizzazione dei neri e l’annientamento dei nativi americani (i cosiddetti “pellerossa”). Nel nostro caso, il «popolo dei signori» è costituito principalmente dalle oligarchie industrial-finanziarie nostrane e transnazionali, che hanno l’obiettivo di adeguare anche la forma di governo alle nuove esigenze richieste dall’attuale fase capitalistica neoliberista. E se il succitato rapporto della Trilaterale parla di limitare quelli che vengono definiti “eccessi della democrazia”, il piano della P2 converge con tali indicazioni affermando esplicitamente di «voler rivitalizzare il sistema», invertendo così quel processo ambiguamente richiamato di «confusione ed indebolimento dello Stato».
Senza in questa sede voler fare un’analisi approfondita del Piano di “rinascita democratica”, ci limitiamo a focalizzare l’attenzione su alcuni provvedimenti istituzionali che, analogamente a quanto auspicato dal rapporto della Trilaterale, hanno l’obiettivo di limitare le prerogative del Parlamento a favore del Governo. Il Piano parlava di «ripartizione, di fatto, delle competenze fra le due Camere (funzione politica alla Camera, funzione economica al Senato)»: così come nella riforma costituzionale del centrodestra, il fine della suddivisione delle competenze è presumibilmente quello di accelerare il processo di approvazione di leggi e provvedimenti. Si vuole impedire in tal modo che eventuali movimenti popolari di protesta possano incidere tra le forze parlamentari (anche solo per parziali modifiche) sfruttando i tempi di passaggio e di approvazione tra una Camera e l’altra.
Per rafforzare la posizione del Governo, il Piano della P2 parla di «modifica (già in corso) dei rispettivi Regolamenti per ridare forza al principio del rapporto (Cost. art. 64) fra maggioranza-Governo, da un lato, e opposizione, dall’altro, in luogo della attuale tendenza assemblearistica», e di «adozione del principio delle sessioni temporali in funzione di esecuzione del programma governativo». Si auspicavano anche modifiche della Costituzione per introdurre il cosiddetto principio della “sfiducia costruttiva” nei rapporti tra Governo e Parlamento –vale a dire «stabilire che il Presidente del Consiglio è eletto daIla Camera all’inizio di ogni legislatura e può essere rovesciato soltanto attraverso le elezioni del successore»– e si intendeva «stabilire che i decreti-legge sono inemendabili», come dire che il Parlamento non può intervenire sui provvedimenti varati dal Governo.
Insomma, si prefigurano una serie di provvedimenti per la stabilizzazione del potere delle classi dominanti, limitando di fatto così l’agibilità della democrazia, come richiesto dalla Trilaterale, senza però –si noti bene– mettere in discussione formalmente i princìpi e i valori della democrazia stessa. Princìpi e valori esplicitati nella nostra Costituzione nella Prima Parte. Questa, dunque, non c’è bisogno di toccarla, tant’è che lo stesso Tremonti, commentando la riforma costituzionale del centrodestra (intervista ad Affari italiani, 15 giugno 2006), può affermare che «nessuno ha mai pensato di modificare la Prima Parte della Costituzione italiana sui grandi e sacri princìpi». Basta semplicemente non pretendere di metterli in pratica e di attuarli con coerenti e da essi inscindibili forme di organizzazione dello Stato e dei rapporti politico-economico-sociali: forme regolate appunto nella Seconda Parte della Costituzione.
Breve storia dei progetti di riforma costituzionale. Dalla Commissione Bozzi a quella D’Alema
Sul piano parlamentare, è nel 1983 che prendono il via una serie di Commissioni bicamerali per la riforma della Seconda Parte della Costituzione, che videro la partecipazione anche del PCI.
Ricordiamo infatti che negli anni Ottanto, all’interno del PCI si convenne sulla necessità (sic!) di aprire un varco nella Costituzione avviando la deriva che progressivamente ha portato alla riforma costituzionale del centrodestra, con l’intermezzo di quella del centrosinistra del 2001. Si passò infatti all’improvvisa posizione ingraiana (1983), volta a dare al potere di vertice del governo una forza istituzionale “pari” a quella che il Parlamento aveva conseguito con la “centralità” degli anni 1970-1975. Un processo che trovò un’importante tappa negli anni Novanta con il superamento del metodo elettorale “proporzionale” e l’emanazione di una legge elettorale “uninominale” (con appendice proporzionale).
Il PCI (e poi gli “eredi” PDS-DS e Rifondazione comunista) ha comunque partecipato ai progetti di riforma costituzionale. La prima Commissione bicamerale, su invito dei presidenti di Camera e Senato dell’epoca, Nilde Iotti (PCI) e Amintore Fanfani (DC), è quella del 1983 guidata da Bozzi, per la quale si adoperarono in particolare Augusto Barbera e l’attuale presidente Napolitano, entrambi provenienti dalla corrente cosiddetta “migliorista” (del capitalismo) del PCI. La Commissione Bozzi si riunì dall’ottobre 1983 al gennaio 1985, presentando al termine dei lavori una relazione per la revisione di 44 articoli della Costituzione, con l’obiettivo principale di rafforzare il ruolo del presidente del Consiglio e i suoi poteri di coordinamento e di rivedere l’esercizio della funzione legislativa. La Relazione finale fu firmata da DC, PSI, PRI e PLI. Si astennero PCI e socialdemocratici. Votarono contro MSI-DN, demoproletari, Sinistra indipendente e Union Valdotaine. Essa rimase comunque lettera morta, in mancanza di condizioni politiche.
Dalla primavera del 1988 all’estate del 1991 tornò in voga il dibattito sulle “riforme”. Il 18 e 19 maggio 1988 si svolsealla Camera ed al Senato un dibattito sulle riforme istituzionali. Secondo le indicazioni dei Presidenti delle Camera e Senato di allora (Nilde Iotti del PCI, Giovanni Spadolini del Partito Repubblicano), le priorità di riforma erano: Parlamento, autonomie locali, ordinamento della Presidenza del Consiglio, regolamenti parlamentari (tempi certi per l’approvazione dei provvedimenti e modifica della disciplina del voto segreto per limitare la “centralità” che il Parlamento aveva assunto negli anni Settanta), controllo della spesa pubblica anche mediante la riforma della legge finanziaria e di bilancio. Il 26 giugno del 1991 l’allora capo dello Stato Francesco Cossiga inviò un messaggio alle Camere affinché eleggessero un’Assemblea costituente. Cossiga invitava sostanzialmente il ceto politico a prendere atto del mutamento dello scenario geopolitico dopo la caduta del Muro di Berlino, che rendeva antiquata la stessa Costituzione redatta nel dopoguerra.
Un anno dopo (luglio 1992) nacque la seconda Commissione bicamerale presieduta da Ciriaco De Mita e da Nilde Iotti. Nel dicembre del 1993 formulò un’ampia riforma del rapporto Stato-regioni, che ribaltava –allo stesso modo della riforma costituzionale del 2001 del centrosinistra– il criterio di competenza accolto nel testo attualmente vigente della Costituzione (enumerazione tassativa delle competenze regionali e attribuzione di tutte le altre competenze allo Stato). Evidente il collegamento di queste normative con il processo di europeizzazione, fondato sul primato del mercato, e la correlativa sottrazione di competenze dallo Stato alle Regioni. Molti degli articoli proposti sono pressoché identici agli articoli di riforma del Titolo V della Costituzione proposti dal centrosinistra. I lavori della Commissione bicamerale attribuiscono ad esempio alle Regioni la potestà di stipulare accordi con analoghi enti territoriali di altri Stati; disciplinano la loro autonomia finanziaria (con il nuovo art. 119-bis, le entrate delle Regioni sono costituite da tributi propri, proventi derivanti dalla vendita di beni e servizi, quote di partecipazione al gettito prodotto nelle singole regioni da tributi erariali con particolare riferimento alle imposte indirette); regolano la partecipazione delle Regioni al processo normativo comunitario ed alle relazioni internazionali.
Il progetto di revisione costituzionale della Commissione De Mita-Iotti prevedeva inoltre l’investitura diretta da parte del Parlamento del Primo ministro, attribuendo a quest’ultimo la esclusiva responsabilità sulla nomina e la revoca dei ministri ed introducendo (così come nel progetto della P2) la succitata “sfiducia costruttiva”. Oltre a questo: l’introduzione di nuove regole in materia di bilancio, la non emendabilità dei decreti-legge da parte del Parlamento, la potestà regolamentare del Governo. Anche allora però tali progetti ebbero vita effimera.
Dopo che Berlusconi, nel luglio 1994 da presidente del Consiglio, istituì un Comitato di studio sulle riforme costituzionali presieduto dal leghista Francesco Speroni, si arriva alla Commissione bicamerale del 1997, presieduta da D’Alema, con la partecipazione anche di Rifondazione Comunista.
In quella sede erano già state formulate molte delle proposte ora attuate dal centrodestra. Nel complesso, il lavoro della Commissione Bicamerale per le riforme costituzionali si concluse con un progetto di revisione costituzionale imperniato in particolare su una forma di governo di tipo “autoritario” e di stampo presidenziale, basato sull’elezione diretta del “capo dell’esecutivo”, il “federalismo” e l’abolizione della centralità parlamentare. Allora, come ricorda Il Foglio (7 giugno 2006), il relatore ulivista Cesare Salvi «reclamava un premier eletto dal popolo e in grado di sciogliere le Camere. Del resto Salvi riproponeva la tesi numero uno del programma elettorale dell’Ulivo scritta da Giuliano Amato per le elezioni del 1996: “L’adozione d’una forma di governo centrata sulla figura del primo ministro”, tecnicamente anche detta premierato».
La mistificazione del “federalismo”. Il significato della “sussidiarietà”
Cerchiamo di tirare le somme di quanto detto. Nel complesso, il progetto del centrodestra non è frutto estemporaneo degli umori del centrodestra, bensì il punto di arrivo di una strategia le cui radici vanno rintracciate nel succitato rapporto della Commissione Trilaterale e che si pone l’obiettivo di dotare il Paese anche di una cornice istituzionale adeguata alla nuova fase neoliberista ed europeista sotto il dominio del capitalismo USA. Una cornice in cui il rafforzamento del potere del Governo, la limitazione della funzione del Parlamento ed il cosiddetto “federalismo” sono punti essenziali, ed in cui i vertici delle istituzioni politiche vanno definitivamente posti al servizio degli interessi d’impresa soprattutto transnazionali, come dimostra la vicenda di una europeizzazione in cui la sovranità popolare è stata sottoposta al dominio delle burocrazie “monetariste”.
Dietro lo sbandierato “avvicinamento” delle istituzioni locali al cittadino –tramite il cosiddetto decentramento– si vogliono subordinare i territori locali (Regioni, Province, Comuni) ad una pluralità di centri di governo dall’alto (il presidenzialismo regionale, eccetera) subalterni a loro volta ad un “centro” sempre più dislocato altrove (Washington, per il suo tramite di Bruxelles).
Il principio di “sussidiarietà” è un complemento essenziale del disegno federalistico di neo-accentramento di ogni vertice autoritario. Dentro questo complicato termine, si cela l’introduzione del primato dell’impresa nell’esercizio delle funzioni pubbliche: un punto diventato di fatto legge costituzionale con il “SI” al referendum sulla riforma del centrosinistra del 2001, che ha appunto sancito che compito di tutte le istituzioni –dallo Stato centrale sino all’ultimo comune– è di favorire lo svolgimento di attività di interesse generale da parte dei “cittadini singoli e associati” e quindi delle imprese (nuova formulazione dell’art. 118).
Si ribadiva allora quanto già previsto nel testo elaborato dall’affossata Commissione D’Alema. Se il principio di sussidiarietà era già stato introdotto dal fascismo con la “Carta del lavoro” del 27 rispetto alle attività economico-sociali, il testo dell’Ulivo addirittura peggiora tale principio dando ai privati e quindi alle imprese un ruolo preferenziale anche per l’esercizio di funzioni per tradizione tipicamente “pubbliche” come appunto quelle concernenti servizi pubblici, sanità, istruzione, eccetera. È questo un duro attacco ai princìpi dello Stato sociale che la Costituzione stabilisce nella Prima Parte.
Sotto il mantello del “federalismo” e dell’“avvicinamento delle istituzioni ai cittadini” (principio ben verificato dagli abitanti della Val Susa) si nascondono gli interessi di un’ideologia neoliberista vogliosa di adeguare il quadro istituzionale alle esigenze dei “mercati finanziari” dominati dalla burocrazia monetarista e dalla finanza statunitense. Altro che “autogoverno”: lo smantellamento dei diritti, dello Stato sociale, la flessibilità del salario, delle condizioni sociali, zona per zona, al fine di soddisfare le convenienze di profitto del capitale finanziario nostrano e transnazionale è lo scenario per il quale anche la forma di Stato va adeguata.
Il dominio dell’esecutivo
Il testo di riforma costituzionale imposto dal centrodestra coniuga il “federalismo” anti-autonomistico e neo-centralista con il premierato e legittima il dominio degli esecutivi a danno di Parlamento, assemblee elettive e autonomie locali in genere.
La riforma del centrodestra attribuisce al premier il potere non solo di dirigere, ma di determinare la politica nazionale, nonché nominare e revocare ministri. Poteri che sono una conseguenza implicita del fatto che il nome del premier è già indicato sulle schede elettorali, quindi di fatto plebiscitariamente investito di tale ruolo dagli elettori, rendendo inoltre in pratica superfluo l’intervento del capo dello Stato. La riforma del centrodestra cancella di fatto la fiducia del Parlamento, in cui il premier si presenta solo per illustrare il suo programma, e limita fortissimamente la possibilità di incidere da parte del Parlamento sulla struttura e funzionalità della forma di governo del premier da parte di qualsiasi gruppo o parlamentare appartenente all’opposizione in nome dell’ideologia della “governabilità”.
Il tutto in un contesto di “passività organizzata” dell’elettorato, al quale non rimane altro che votare, ogni cinque anni, forze politiche contrapposte elettoralmente ma portatrici di una medesima ideologia di “stabilità” economico-sociale. Un “premierato” che è –allo stesso modo di presidenzialismo, semi-presidenzialismo e di quel cancellierato apprezzato anche da correnti di sinistra cosiddetta “alternativa”– una delle varianti di ingegneria istituzionale della forma di potere autoritario dall’alto, non prevista ed anzi esclusa nella nostra Costituzione per via della “centralità” del Parlamento.
Avendo il centrosinistra aderito ad una o l’altra di queste forme cesaristiche di governo, varianti “tecniche” di una sola e unica forma dello Stato capitalistico, è chiaro che finge di difendere i principi della Costituzione, del resto già ampiamente “abrogati” dalla precedente riforma del Titolo V del centrosinistra su prerogative di Regioni ed enti locali e ripartizione di competenze con lo Stato. Dati di fatto che il centrosinistra mistifica enfatizzando le norme sulla cosiddetta devolution imposta dalla Lega, nella inconsapevolezza di massa alimentata in decenni di proposte di revisione e di attacco al sistema di “governo parlamentare” fondato sulla centralità del Parlamento e non del governo come è nei sistemi degli altri paesi europei.
Le forze del centrosinistra, infatti, condividono il principio, vero vulnus della Costituzione, di elevare il capo del governo a premier, vale a dire porre il governo al di sopra del Parlamento, con un potere monocratico personale del premier al di sopra di entrambi, come quando dal Re dipendeva il governo e da questo il Parlamento. In questo modello, che indubbiamente si rifà alle esperienze britannica e statunitense, l’opposizione è istituzionalmente esclusa dal potere di indirizzo politico (come potrebbe accadere in un sistema istituzionale centrato sul Parlamento), rimanendo solo titolare di un controllo-verifica, utile eventualmente a predisporre l’applicazione del principio di “alternanza” al governo, nel contesto della su richiamata “passività organizzata”.
A questa elevazione dell’esecutivo come dominus del Parlamento, fa da interfaccia la concertazione con il governo –e al di sopra del Parlamento– tra le forze rappresentative di capitale e lavoro nei rapporti di classe. Questo per effetto dell’abbandono dei due pilastri della “democrazia politica, economica e sociale” assunta nel modello del 1948. Sul terreno politico, l’abbandono dell’autonomia del Parlamento dal governo, come portato di un pluralismo imperniato sul sistema elettorale proporzionale, che fino al 1993 risultava applicato a tutti i tipi di elezione, escluse quelle riguardanti i piccoli comuni. Sul terreno sociale, l’abbandono dell’autonomia sociale dei lavoratori e del sindacato di classe rivendicativo di un nuovo assetto dell’organizzazione della produzione e delle istituzioni centrali e decentrate (Regioni, province, comuni), che fino a metà degli anni Settanta seppe dare vita a quelli che si chiamavano appunto “contratti-riforma” per la democratizzazione e socializzazione dei poteri di Stato e d’impresa.
La funzione dei cittadini nella contesa referendaria
Il nostro auspicio è che il 25-26 giugno vinca il “NO”. Adesso per respingere il modello di revisione “autoritaria” della Costituzione del 1948 imposto dal centrodestra, successivamente per bloccare il prosieguo della strategia di “riforme istituzionali”. Ancora in questi giorni i due poli continuano ad avanzare proposte di dialogo e punti di convergenza per stravolgere la Costituzione non più da soli ma “insieme”.
Prendiamo ad esempio le dichiarazioni di un Luciano Violante, capogruppo DS alla Camera. In una lettera al Corriere della Sera (12 giugno 2006), l’esponente dei DS auspica che «dopo il 25 giugno si apra un dialogo in Parlamento tra tutte le forze politiche per individuare le linee guida di una strategia delle riforme prioritarie ed essenziali, da attuare con leggi costituzionali ed ordinarie». E cioè, «così come avviene con il Dpef per la manovra di bilancio, si approvi entro settembre un documento di programmazione delle riforme, con l’indicazione degli interventi assolutamente prioritari e del modo in cui realizzarli». A tal fine Violante apre le porte persino ad una commissione redigente composta da «50 parlamentari e 50 non parlamentari», con metà dei componenti designate dai presidenti delle Camere e gli altri dal capo dello Stato, dall’Anci (Associazione nazionale Comuni Italiani), dall’Unione Province Italiane e dalla conferenza delle Regioni.
Insomma, centrosinistra e centrodestra sono pronti a concordare uno stravolgimento della Costituzione. Semplicemente, il centrodestra vorrebbe che prima vinca il SI al referendum; il centrosinistra, invece, si dichiara pronto all’inciucio costituzionale dopo la vittoria del NO. Sottolineando, se ce ne fosse ancora bisogno, che il NO del centrosinistra allo snaturamento berlusconiano di tutto l’ordinamento della seconda parte della Costituzione è in pratica solo un NI.
Deve essere chiaro che l’antitesi di fondo nella contesa referendaria non è tra centrodestra e centrosinistra, ma tra il rilancio dei valori di fondo della Costituzione e la linea di attacco organico alla Seconda Parte della Costituzione, le cui radici vanno rintracciate nella riunione della Commissione Trilateral del 1975 in nome della limitazione della democrazia e dell’ideologia della “governabilità” per non ostacolare il dispiegarsi pieno dell’economia di mercato.
È assolutamente indispensabile rendersi conto della vera posta in gioco. Quel che si vuole sminuire chiamando “devolution” è in realtà una riforma autoritaria, centralizzatrice, antisociale e antiautonomistica della forma di governo e gravida di conseguenze anche sulla stessa forma di Stato. Riforma resa possibile grazie all’affermarsi di due presupposti. Primo: la legge elettorale uninominale, che permette non solo di sfornare le leggi ordinarie ad uso e consumo della maggioranza, ma rende facile anche le revisioni costituzionali. Tant’è che nel 2001, ponendosi sulla stessa lunghezza d’onda della strategia del Polo, l’Ulivo varò, col risicato scarto di quattro voti di maggioranza sul centrodestra, la riforma costituzionale del Titolo V, stravolgendo il modello della “Repubblica delle autonomie” prospettata nei “Principi Fondamentali” (art. 5). Secondo: l’affermazione del presupposto secondo cui il procedimento di revisione costituzionale previsto dall’art. 138 (pensato ed elaborato per il sistema proporzionale che fu subito reintrodotto nel 1945 per tutti i tipi di elezione) può sconvolgere norme e istituti della Seconda parte della Costituzione senza coinvolgere la Prima. Presupposto formalizzato poi nella Commissione bicamerale D’Alema, dove la sinistra, accoppiata alla destra, aveva già previsto di sostituire la Seconda parte della Costituzione modificando una ottantina di articoli. Un presupposto di cui si è avvalso anche Berlusconi, che ha modificato una cinquantina di articoli della Seconda parte, dicendo di non aver toccato la Costituzione perché ha lasciato invariati i princìpi e le norme della Prima parte.
Detto questo, bisogna però altresì rilevare che, in un contesto politico oltretutto segnato dal contrasto tra i due Poli per strette ragioni di potere, la funzione dei cittadini è enormemente cresciuta da quando la maggioranza di centrosinistra, in occasione del referendum costituzionale del 2001, richiese il referendum per ottenere l’avallo popolare sulla stessa. Si tratta di un’eventualità, non di un obbligo: lo conferma il fatto che se, dal 2000 in poi, tutte le leggi costituzionali (sette) sono state approvate a maggioranza non qualificata (oltre la metà più uno ma sotto i due terzi), solo in due occasioni –nel 2001 e nel 2006– è stato richiesto un referendum popolare dal Polo prima e dal centrosinistra ora per ragioni attinenti la loro contrapposizione tattica in Parlamento, ma all’interno di una comune strategia a danno della democrazia italiana e al ruolo delle classi subalterne. In altri cinque casi non è accaduto (ad esempio per l’istituzione della circoscrizione estero per l’esercizio del voto degli italiani residenti all’estero o per il rientro in Italia dei Savoia).
Andare a votare è allora dunque molto importante. Occorre però diffondere tra il popolo la consapevolezza della posta in gioco, ed adoperarsi anche in caso di vittoria del NO per evitare che i partiti del centrosinistra riprendano quel discorso avviato con la Commissione De Mita-Jotti (1993) e con la Commissione D’Alema (1997), attaccando e rovesciando definitivamente il modello di rapporto tra società (movimenti, partiti, eccetera) e istituzioni (Stato, regioni, provincie e comuni) sancito dalla costituzione. Un modello che, pur parzialmente, aveva aperto spazi inediti di democrazia non solo formale ma anche sostanziale almeno dal 1945 al 1975, con le lotte operaie e di altri movimenti democratici che avevano allarmato i gruppi di potere subalterni agli interessi statunitensi e lo stesso sistema NATO per cui additavano il “caso italiano” di democrazia sociale avanzata come cosiddetta “anomalia italiana” del sistema capitalistico Occidentale.
Angelo Ruggeri
20 giugno 2006
1 Il 3 luglio 1979 Carter firmò la prima direttiva per aiutare segretamente gli oppositori del regime sovietico di Kabul, ben sei mesi prima dell’aggressione dei sovietici, che allora si ‘giustificarono’ asserendo di voler contrastare un coinvolgimento segreto degli USA. «Il giorno che i sovietici hanno varcato il confine afghano ho scritto al Presidente Carter che finalmente avevamo la possibilità di dare all’Unione Sovietica la sua guerra del Vietnam. Infatti, per circa dieci anni Mosca ha dovuto portare avanti una guerra insostenibile da parte del governo, un conflitto che ha demoralizzato ed infine sgretolato l’impero sovietico (…) Cosa è più importante per la storia del mondo? I talebani o il collasso dell’impero sovietico? Qualche musulmano esaltato o la fine della guerra fredda?», sono state le parole dello stesso Brzezinski al francese Nouvel Observateur (15 gennaio 1998).
2 In un’intervista rilasciata al Corriere della Sera (30 gennaio 1975), che si può considerare premonitrice della fase storica antidemocratica che stiamo attraversando, Gianni Agnelli affermò: «Probabilmente dovremo avere dei governi molto forti, che siano in grado di far rispettare i piani cui avranno contribuito altre forze oltre a quelle rappresentate in Parlamento. Probabilmente il potere si sposterà dalle forze politiche tradizionali a quelle che gestiranno la macchina economica. Probabilmente i regimi tecnocratici di domani ridurranno lo spazio delle libertà personali. Ma non sempre tutto ciò sarà un male. La tecnologia metterà a nostra disposizione un maggior numero di beni e più a buon mercato». Parole che inquietano e devono far riflettere.
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