La rassegna degli interventi proposti da Indipendenza nel 2006 in concomitanza con la campagna referendaria sulla riforma c.d. ‘devolution’:
– La mistificazione della devolution
– Al referendum del 25-26 giugno vota NO
– Per un NO alla riforma costituzionale
- devolution, dittatura del premier, ridimensionamento del Parlamento
- la presa in giro della devolution
- il titolo V della Costituzione riformato dal centrodestra
- il principio di sussidiarietà
- il premierato del centrodestra e il premierato del centrosinistra
- la sfiducia costruttiva
- il presidente della Repubblica
- il ‘bicameralismo asimmetrico’. Il Senato federale
- la riduzione del numero dei parlamentari
– La strategia delle riforme istituzionali
- dal rapporto della Commissione trilaterale alla riforma costituzionale del centrodestra
- la valenza della Prima Parte della Costituzione
- attacco alla democrazia. Il rapporto della Commissione trilaterale del 1975
- il piano P2 di ‘rinascita democratica’
- breve storia dei progetti di riforma costituzionale. Dalla commissione Bozzi a quella D’Alema
- la mistificazione del ‘federalismo’. Il significato della ‘sussidiarietà’
- il dominio dell’esecutivo
- la funzione dei cittadini nella contesa referendaria
Lo scritto sarebbe dovuto uscire per la versione cartacea di “Indipendenza” (n. 19). Ragioni di spazio non lo hanno reso possibile. Data la rilevanza contiamo comunque di tornare sull’argomento
LA MISTIFICAZIONE DELLA DEVOLUTION
Il tema della cosiddetta devolution non è stato certo tra quelli in primo piano, stante la sua rilevanza. Centrosinistra e centrodestra si sono contraddistinti nell’irretire l’elettorato con partiti, liste e “duelli” ad personam, riducendo la democrazia al puro e semplice atto del voto e all’esercizio illusorio in quel solo giorno della sovranità popolare. A ben vedere il centrosinistra, nonostante l’impegno per la raccolta di firme per il referendum possa far pensare il contrario, ha fatto di questa solo una battaglia strumentale di schieramento, eludendo i contenuti reali della revisione costituzionale imposta dal centrodestra. Farlo, infatti, avrebbe significato mettere in discussione gli assi della strategia di “riforme istituzionali” e della relativa concezione di “modernizzazione” assunta e portata avanti sia prima della propria devolution di revisione costituzionale varata nel 2001, nonché dopo con la cosiddetta “bozza Amato”, cioè le proposte per la riforma della Costituzione approvate nel dicembre 2003 dal coordinamento dei segretari dei partiti del centrosinistra, e lo stesso “programma elettorale” dell’Unione, i cui contenuti (“premierato”, “Senato federale”, “federalismo fiscale”) non si discostano da quelli approvati nel 2005 dal centrodestra. Perché ciò che la “sinistra”, come la Lega, enfatizza come “devolution”, è in realtà una riforma autoritaria del sistema di governo. Le norme costituzionali prevedono infatti un “rafforzamento dell’esecutivo” ed un “governativismo centralistico” su cui in realtà concorda quello stesso centrosinistra appoggiato dalla frazione dominantedel capitalismo italiano:Carlo De Benedetti, UniCredit e San Paolo-Imi ed i soci azionisti di quel Corriere della Sera il cui direttore, Paolo Mieli, con l’editoriale dell’8 marzo, ha sfilato la maschera dell’“indipendenza” esprimendosi apertamente per la ricostituzione dell’asse tra centrosinistra e poteri forti. Un’asse che fu protagonista delle privatizzazioni degli anni ’90, con Draghi –detto l’amerikano– non più al ministero del Tesoro, come nei governi Amato, Ciampi, Berlusconi, Prodi e D’Alema, ma direttamente a Banca d’Italia.
Il centrosinistra –“antiberlusconiano” ma non
“anticapitalistico”– spaccia infatti come “devolution” un antiautonomistico e
antiparlamentare accentramento e rafforzamento dell’esecutivo e di tutti i vertici istituzionali (locali, regionali e “nazionali”).
Si dice in inglese ciò che è desunto dal nostro
latino devolvo per non far capire agli italiani che trattasi di
esclusiva “ripartizione” di funzioni solo amministrative tra vertici di
Stato e di Regioni, con un rafforzamento del governativismo centralista e la
subordinazione di cittadini e territorio sociale. Tutto ciò si
contrappone alla “Repubblica delle autonomie” prevista dalla nostra
Costituzione e si concreta in una forma di governo di tipo autoritario o
del “capo” (il “premierato”) che è condizione sovrastrutturale operativa
per il consolidamento, in questa fase, del capitalismo e della classe dominante
nell’epoca dell’Unione Europea e dell’imperialismo USA.
L’uso del termine “devolution” è un trucco semantico
pari a quello con cui l’Ulivo truccò nel 2001 la sua riforma del Titolo V della
Costituzione come “federalismo”. Anche allora si parlò infatti di voler
“avvicinare le istituzioni al cittadino”: una pura mistificazione, come ben
sanno in Val di Susa (ma vale per tutti i territori-sociali dove sono in corso
opere-business), dove la “legge obiettivo” sulle
“grandi opere” del 2001 ha ribadito il principio dell’emarginazione dei
cittadini della valle dalle scelte attinenti al proprio territorio, prevedendo
solo il consenso della Regione presidenzialista ed escludendo financo i
sindaci dalla possibilità di «concorrere a determinare le scelte nazionali»
(art. 49 Costituzione).
Mentre il precedente art.
114 della Costituzione identificava le autonomie locali come articolazione
pluralistica dello Stato, garantendone l’autonomia rispetto allo Stato con
l’art. 128 (le “autonomie locali” sono “Stato” esse stesse in una
“Repubblica delle autonomie” che non è coincide con il solo governo), con le leggi di centrosinistra e centrodestra gli
abitanti della Val Susa si sono visti ora di fatto cancellati come realtà
sociale –in nome di un cosiddetto “interesse nazionale” identificato con il
governo– in quanto totalmente subordinati sia al governo del primo ministro di
destra che al presidente della Regione di sinistra, intenti a partecipare al
business delle grandi opere tutelato dall’Europa di mercato.
L’“interesse nazionale” torna ad essere quello dello “Stato apparato”, del
governo e della governabilità, non più quello della Repubblica delle autonomie.
Sul territorio-sociale calano autoritariamente decisioni gerarchicamente
ordinate: dai vertici dello Stato a quelli della Regione, alle province ed ai
comuni, già da tempo tutti ad elezione diretta presidenzialista. Agli
enti territoriali, con il decentramento dall’alto, viene sì affidata qualche
funzione amministrativa in più, ma di fatto gli si annulla il ruolo di
“soggetti della programmazione economica nazionale” che le autonomie
istituzionali (comuni, ecc.), sociali (sindacati, movimenti, eccetera) e
religiose (chiese) avevano nella Costituzione.
La condizione principale che ha consentito al
centrosinistra prima ed al centrodestra ora di stravolgere parti della nostra
Costituzione è stata l’introduzione del sistema elettorale maggioritario agli
inizi degli anni ’90.
L’art. 138 di revisione costituzionale, con la
previsione di “maggioranze qualificate” per la modifica delle norme
costituzionali, si inquadrava infatti nell’ambito di un sistema elettorale
proporzionale. Il maggioritario, invece, oltre ad aver determinato una
nauseante americanizzazione della politica, con l’aspetto e la
presenzialità dei candidati ad avere più valore dei contenuti espressi, ha
consentito la formazione in Parlamento di maggioranze fittizie1
nel Paese e rappresentanze non pluraliste, dove chi prende più voti cancella
tutti quelli che ne prendono meno. Un sistema appoggiato, anzi voluto in primis
dal centrosinistra e “usato” e non “alterato” sostanzialmente
dal centrodestra, dato che la sua riforma proporzionale del dicembre 2005, che
prevede varie soglie di sbarramento e mancanza di preferenze, è in realtà un
maggioritario mascherato, essendo falsato dal premio di maggioranza per la
coalizione vincente (anche con meno del 50% dei voti, come nella Legge
regionale del 13 Maggio 2004 della Toscana di “sinistra” copiata dal Polo), in
cui anche un solo voto di differenza con la coalizione perdente determinerà uno
scarto in seggi in Parlamento di gran lunga più ampio.
La modifica autoritaria della forma di governo
proposta dal centrodestra trova le sue premesse in ben tre commissioni
bicamerali (commissione Bozzi 1984/1985, Iotti-De Mita 1992/1994, D’Alema
1995/1997), di cui l’ultima, istituita con “legge costituzionale”
per sostituirsi al Parlamento derogando alle norme di revisione previste
dall’art.138, anticipava le modifiche approvate dal centrodestra, ed in
cui si prevedeva anche l’introduzione del modello statunitense della Camera
delle Regioni.
Un modello che, accelerando l’iter di approvazione delle
leggi, restringerà pesantemente i tempi di discussione ed i margini di
operatività, nonché di intervento popolare (ad es. manifestazioni di protesta):
salvo alcune materie, il modello prevalente sarà quello dei procedimenti
monocamerali sulla base delle materie trattate, e non sarà dunque richiesta una
doppia approvazione di Camera e Senato sullo stesso testo. Tale sistema vede in
prima linea Rifondazione, che ha istituito una commissione presieduta da Franco
Russo fautrice di quel“modello tedesco” e dei Lander a suo tempo
proposto dalla P2 di Licio Gelli per “riformare” la nostra Costituzione. Il
piano della P2 ha segnato in sostanza l’avvio della strategia di quelle
“riforme istituzionali” e di quel maggioritario che, grazie anche alla deriva
di CGIL e “sinistra” (con tanto di stravolgimento dell’autonomia sindacale con
la “concertazione” la cui linea, Melfi insegna, ha portato agli operai una
miseria crescente), hanno portato alla delegittimazione del Parlamento, del
pluralismo e financo del diritto di sciopero, per cui Berlusconi, in occasione
dello sciopero generale, ha potuto ben dire che “è inutile”.
Di fronte alla “riforma” costituzionale
berlusconiana si vede ora quanto aberrante sia stato, da parte del
centrosinistra, spezzare l’organica interdipendenza tra Prima e Seconda Parte
della Costituzione, dato che, modificando quest’ultima, si invalidano nella
pratica i principi contenuti nella Prima, di fatto cancellati anche dall’Unione
Europea. Quando il centrosinistra afferma che, tornando al governo, “farà una
vera riforma della Costituzione”, significa che proseguirà in una strategia che
non è alternativa a quella “canonizzata” dal centrodestra, come emerge dalla
lettura della succitata “bozza Amato”. Una strategia che ha visto come tappa
fondamentale la fissazione del principio di “sussidiarietà” penetrato nel
nostro ordinamento con il diritto comunitario. Questo principio presenta vari
aspetti. Quello della sussidiarietà cosiddetta “orizzontale”, ad esempio, che
si ha quando attività proprie dei pubblici poteri vengono svolte da soggetti
privati o comunque esterni all’organizzazione della Pubblica Amministrazione.
Un principio che è stato assunto tra i criteri ispiratori della legge Bassanini
del 1996 (votata pure da Rifondazione Comunista, che ha rappresentato il
grimaldello per la privatizzazione della sanità e dei servizi pubblici) ed è
stato “costituzionalizzato” con la modifica del Titolo V della Costituzione del
2001. Fanno dunque sorridere le dichiarazioni di Bertinotti e D’Alema contro la
direttiva comunitaria Bolkestein (della Commissione Europea di Prodi) sui
servizi e le funzioni pubbliche, quando in realtà operando a Roma hanno
già posto le basi per una loro privatizzazione.
In realtà loro contano sulla corta memoria politica.
Con quale faccia l’abbiano fatto, peggiorando quel principio di “sussidiarietà”
che il fascismo “almeno” limitava alle sole funzioni economiche, lo lasciamo
giudicare a chi non si fa abbagliare dall’“antiberlusconismo mistico” e guarda
più ai contenuti, soprattutto a quelli enunciati da coloro che pretendono di
dirsi “anticapitalisti”, ma di fatto si ritrovano a sostenere la crema
del capitalismo italiano. Per dire a testa alta, a Berlusconi, “giù le mani
dalla Costituzione”, il centrosinistra dovrebbe allora fare atto di fortissima
autocritica, rinunciando alle sue “riforme” della Costituzione e alla
cosiddetta “bozza Amato” con cui si rimarrebbe certo fedeli all’allineamento
ideologico con la forma di governo britannica e statunitense, ma si
affosserebbe il modello di democrazia sociale e politica fondato sull’onda
della Resistenza antifascista.
Angelo Ruggeri
28 marzo 2006
1 Essendo,
con tale sistema, i seggi in Parlamento non corrispondenti, “proporzionali”, ai
consensi popolari assegnati ad ogni singolo partito, col risultato che la
maggioranza parlamentare può cambiare addirittura la Costituzione nonostante il
rifiuto di una parte consistente, a volte persino maggioritaria nel Paese, del
sistema politico.
**
AL REFERENDUM DEL 25-26 GIUGNO VOTA “NO”
Respingere ora il modello di revisione “autoritaria” della Costituzione. Bloccare poi, anche in caso di vittoria del NO, il prosieguo della strategia di “riforme istituzionali” funzionale alla fase neoliberista del sistema capitalistico. Ancora in questi giorni dai due poli vengono proposte di dialogo e punti di convergenza per stravolgere la Costituzione non più da soli ma “insieme”: il centrodestra vorrebbe che prima vinca il SI al referendum, mentre il centrosinistra si dichiara pronto all’inciucio costituzionale dopo la vittoria del NO. Sottolineando, se ce ne fosse ancora bisogno, che il NO del centrosinistra allo snaturamento berlusconiano di tutto l’ordinamento della Seconda Parte della Costituzione è in pratica solo un NI. L’antitesi di fondo è tra l’interesse nazionale e la preminenza delle oligarchie e dei loro lacché politici di riferimento. Le oligarchie politiche ed industrial-finanziarie nostrane e soprattutto estere, statunitensi innanzitutto, per dettare meglio le loro strategie a tutto campo, richiedono un adeguamento anche dei meccanismi istituzionali e decisionali dietro l’ideologia della “governabilità”. È interesse delle classi dominate, sempre più subalterne, della nazione rilanciare i valori di fondo della Costituzione, concretarli ed allargarne la portata.
***
Lo scritto è una sistemazione di riflessioni interne
alla redazione finalizzate a fornire una chiave di lettura il più comprensibile
possibile (la materia già di per sé è ostica ai più) del progetto di riforma
costituzionale del centrodestra per cui si voterà nel referendum del 25-26
giugno 2006. In tal senso ci si è avvalsi del prezioso lavoro svolto dai siti www.riforme.net e www.laCostituzione.it, impegnati nella
campagna referendaria. Nell’insieme si evidenziano anche le convergenze di
sostanza in materia di riforme istituzionali provenienti dal centrosinistra
(dalla Bozza Amato del dicembre 2003
al programma elettorale dell’Unione del febbraio 2006).
Si rilevano tali affinità e viene motivato il NO al
progetto di revisione costituzionale tra l’altro di complicata lettura (come
peraltro la riforma costituzionale del centrosinistra del 2001), con diversi
articoli non esaustivi in sé ma che rinviano ad altri articoli e commi. Si
entra nel merito della discussione della cosiddetta “devolution” e delle novità
del testo: la fine del bicameralismo perfetto, la conferma del “federalismo
competitivo” introdotto dalla riforma del Titolo V del centrosinistra nel 2001,
l’aumento a dismisura dei poteri del Primo ministro anche nei confronti dello
stesso gabinetto di Governo, la riduzione del numero dei parlamentari.
PER UN “NO” ALLA RIFORMA COSTITUZIONALE
–devolution, dittatura del premier, ridimensionamento del
Parlamento-
La campagna per il referendum costituzionale
del 25-26 giugno si è svolta, al di là di ripicche e scaramucce, all’insegna
della contrapposizione di facciata tra centrosinistra e centrodestra, ripetendo
sostanzialmente lo spettacolo già visto in occasione del referendum
dell’ottobre 2001 sul nuovo Titolo V della Costituzione (che riguarda i
rapporti e la ripartizione di competenze tra Stato, Regioni ed enti locali)
varato dall’Ulivo, in sede parlamentare, con soli 4 voti di scarto.
Da parte del centrosinistra non sono
certo mancati i pronunciamenti a favore del NO. A ben vedere, però, le critiche
alla riforma del centrodestra hanno via via riguardato non i princìpi
ispiratori del testo costituzionale, bensì gli strumenti approntati dalla
coalizione avversaria attraverso i quali realizzarli. Molto significativo
l’appello dell’Associazione Italiana dei Costituzionalisti,scritto da Augusto Barbera (DS) e Stefano Ceccanti (anch’egli di
area DS), intitolato “No al referendum per una riforma migliore”, largamente
sottoscritto da costituzionalisti ed esponenti politici del centrosinistra, in
cui si dichiara l’opposizione alla riforma del centrodestra «perché i
meccanismi in essa prescelti distorcono o addirittura capovolgono i punti di
partenza ispirati ad alcuni validi principi (legittimazione diretta del Primo
Ministro, superamento del bicameralismo perfetto, riduzione del numero dei
parlamentari, rafforzamento del sistema delle autonomie)». Dichiarazioni
che non devono meravigliare e che richiamano contenuti della Bozza Amato, vale a dire i princìpi e le proposte
per la riforma della Costituzione in tema di forma di Governo, Senato della
Repubblica e “garanzie democratiche” sottoscritti dalcoordinamento dei
segretari dei partiti del centrosinistra il 10 dicembre 2003. Del resto, si susseguono a più
riprese dichiarazioni di esponenti del centrosinistra (ad esempio Luciano
Violante) per un dialogo con la coalizione avversa per varare “insieme” una
riforma costituzionale.
La presa in giro della
devolution
L’appena affermata sostanziale identità di contenuti tra centrosinistra e
centrodestra può sembrare contraddetta dalle norme della cosiddetta
“devolution”. Norme che la Lega vanta come risultato concreto dell’appoggio
dato al centrodestra, e che il centrosinistra denuncia come premessa per una
spaccatura dell’Italia, e che sono state al centro della contrapposizione
mediatica tra i due poli.
Entrando però nel merito, si scopre una
sorprendente realtà: sulla cosiddetta “devolution”, le differenze tra la
riforma costituzionale del centrodestra e quella approvata dall’Ulivo alla fine
della scorsa legislatura sono quasi inesistenti. E la sensazione forte è che il
battage sulla “devolution” serva anche a coprire gli
stravolgimenti veri e pericolosi che questa riforma prevede riguardo ad esempio
la forma di governo, il premier, il Parlamento, la formazione delle leggi.
Per capire il punto, occorre brevemente richiamare
i contenuti della riforma del Titolo V approntata dal centrosinistra. Prima del
2001, le Regioni
godevano di potestà legislativa entro limiti definiti dallo Stato e per
determinate materie, vigendo il criterio della cosiddetta “competenza
residuale” affidata allo Stato: per le materie non esplicitate nel vecchio art.
117, la competenza è dello Stato.
Il nuovo art. 117 approntato dal
centrosinistra sulla ripartizione
delle competenze tra Stato, Regioni ed enti locali capovolge invece la
succitata impostazione: si elencano per la prima volta le materie di competenza esclusiva dello Stato
(quindi la Costituzione limita le materie statali), assegnandone altre alla
“legislazione concorrente” di Stato e Regioni (una formula nella pratica
ambigua, secondo cui lo Stato detta i princìpi generali, le Regioni fanno leggi
anche diverse tra loro ma per raggiungere i fini dettati dallo Stato),
attribuendone altre ancora alla “legislazione esclusiva” delle Regioni. Inoltre
(attenzione a questo punto) si stabilì che «spetta
alle Regioni la potestà legislativa in riferimento ad ogni materia non
espressamente riservata alla legislazione dello Stato» (art. 117, comma 4).
In altre parole, ogni materia non esplicitamente assegnata allo Stato è
automaticamente delle Regioni.
Veniamo al dunque. È oramai luogo
comune che la cosiddetta “devolution” nuova formulazione abbia aggiunto le
seguenti materie alla esclusiva competenza regionale: assistenza e
organizzazione sanitaria; organizzazione scolastica, gestione degli istituti
scolastici e di formazione, salva l’autonomia delle istituzioni scolastiche;
definizione della parte dei programmi scolastici e formativi di interesse
specifico della Regione; polizia amministrativa regionale e locale. Notiamo
intanto che l’istituzione di un corpo di polizia regionale in aggiunta a quelli
già esistenti (polizia comunale, polizia provinciale, Corpo Forestale dello
Stato, Guardia di Finanza, Polizia di Stato e Carabinieri) rappresenterà una
spesa aggiuntiva per il bilancio delle Regioni, che contraddice la vulgata del
centrodestra che descrive questa riforma come strumento per la diminuzione
della spesa pubblica. Quel che ci preme comunque in particolar modo
sottolineare è che tali materie, in realtà, erano già di
competenza regionale.
L’art. 117
riformato dal
centrosinistra nel 2001 non le annovera infatti tra
quelle di competenza statale. Con la riforma costituzionale del centrodestra,
tali materie vengono soltanto esplicitamente elencate tra quelle di competenza
regionale, ed aggiunte alla formulazione del succitato art. 117, comma 4.
Il fine pratico del ritocco può
essere semmai di porre dei paletti ad
eventuali pronunciamenti futuri della Corte costituzionale a riguardo: questo
perché nella pratica la ripartizione delle materie di competenza (alcune dello
Stato, alcune “concorrenti”, il resto alle regioni) ha lasciato spazio alle più
ampie interpretazioni. Espressioni come quella per cui lo Stato legifera sulla
“tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali”, ad esempio, sono
nella pratica vaghe. Questo ha generato molteplici conflitti tra Stato e
Regioni (in particolare sulla legislazione “concorrente”) sul diritto a
legiferare in determinati ambiti, ed è toccato alla Corte costituzionale
stabilire di volta in volta cosa significassero nella pratica quelle materie di
competenza espresse nell’art. 117, commi 2 e 3, riformato dal centrosinistra nel
2001.
Esplicitare quelle materie
(l’oggetto della “devolution”), dunque, già implicitamente di competenza delle
Regioni, dovrebbe sgombrare il campo da ogni dubbio e ogni possible
interpretazione della Corte. L’istruzione, ad esempio, è attualmente materia di
legislazione concorrente. La riforma, inserendo la dizione “organizzazione
scolastica” tra le materie di competenza residuale delle regioni, vuole
limitare la possibile interpretazione di “istruzione” da parte della Corte
costituzionale, escludendo dal suo concetto l’organizzazione scolastica.
In ogni caso, fermo restando la
vaghezza delle materie, sarà sempre la Corte costituzionale a doverle
interpretare. Rimane il fatto che scrivere “esclusiva” serve solo a ribadire
esplicitamente ciò che implicitamente era già attribuito alle Regioni. La
stessa Corte costituzionale, inoltre, anche con questa esplicitazione, potrebbe
sempre delimitarne gli ambiti di legislazione. Più che giuridici, a ben vedere
le motivazioni principali della “devoluzione” sono essenzialmente politiche. La
Lega, esplicitando tali materie, si è trovata con in mano qualcosa da offire al
proprio elettorato come risultato di questi 5 anni di governo; gli altri
partiti della maggioranza glielo consentono a fini di trattative interne alla
coalizione, mentre il centrosinistra ha uno strumento di propaganda per
chiamare a raccolta contro la riforma del centrodestra e guadagnare consensi.
Tutti così felici e contenti, alla faccia degli elettori ancora una volta presi
in giro.
Il Titolo V della Costituzione riformato dal centrodestra
Le norme sulla cosiddetta “devolution” sono dunque
un semplice contentino formale per la Lega di Bossi che non cambia
sostanzialmente niente rispetto a quanto sancito dalla riforma del
centrosinistra. Il pericolo di una sanità e scuola (relativamente) di serie A per le regioni ricche e di serie
B per quelle più povere era già stato portato dall’Ulivo nel Titolo V della
Costituzione con l’introduzione del principio
della “tutela dei livelli essenziali” (cioè minimi), che è altra cosa dal voler migliorare le condizioni
di vita in misura uniforme sul territorio nazionale. Comparando i testi,
inoltre, si scopre che in merito alle competenze da ripartire tra Stato e
regioni la riforma del centrodestra è addirittura più “centralista”, dato che
segna il ritorno alla legislazione esclusiva dello Stato di importanti materie
quali le norme generali sulla tutela della salute, la sicurezza del lavoro, le
grandi reti strategiche di trasporto e di navigazione, l’ordinamento della
comunicazione, l’ordinamento delle professioni intellettuali, l’ordinamento
sportivo nazionale, la produzione strategica, il trasporto e la distribuzione
nazionali dell’energia (art. 117, comma 2): tutte materie concesse alle Regioni
dalla riforma costituzionale del 2001. Vanno rilevate come curiosità l’aggiunta al medesimo comma, come materie su cui lo
Stato vanta la legislazione esclusiva, della promozione
internazionale del sistema economico e produttivo nazionale e della politica
monetaria e della tutela del credito, oltre a quelle già esistenti di moneta e tutela del risparmio.
Per il resto, la riforma del centrodestra conferma
e per certi versi addirittura complica la confusa precedente riforma del
centrosinistra. Viene confermata la subordinazione della potestà legislativa di
Stato e Regioni alle normative dell’Unione Europea (art. 117, comma 1), anche
se è stata tolta la subalternità ai «vincoli
internazionali». Viene confermato il principio, introdotto dal centrosinistra, della «tutela dei livelli essenziali» delle prestazioni concernenti i diritti civili e
sociali (art. 120, comma 2):
obiettivo della Repubblica italiana non
è dunque più cercare di eliminare le differenze di condizione economica e
sociale. Fissato ad esempio a 10 i livelli essenziali delle prestazioni,
che una Regione si trovi ad 11 ed un’altra a 100 non farebbe differenza: lo
Stato non avrebbe obblighi.
Per altro, l’introduzione del riferimento a
“livelli essenziali di prestazione” va necessariamente combinato con le ampie
competenze affidate alle Regioni e, soprattutto, con il principio del
“federalismo fiscale” (art. 119), già disciplinato dal centrosinistra
(cosiddetta “autonomia”
finanziaria di entrata e di spesa, applicazione di tributi ed entrate proprie,
compartecipazioni al gettito di tributi erariali riferibile al loro territorio)
e sempre da inquadrare nel contesto dei vincoli di bilancio di Bruxelles, da
rispettare anche a livello locale. Ricordiamo che nell’art. 119, comma 3, si
prevede «l’istituzione di un fondo perequativo per i territori con minore capacità
fiscale per abitante»: una
volta garantiti i “livelli essenziali”, però, le Regioni più ricche non
avrebbero più alcun “dovere” di solidarietà da adempiere e potrebbero
lecitamente adoperarsi per ostacolare interventi di riduzione delle proprie
entrate fiscali a vantaggio delle Regioni più povere. Tenuto fermo questo
quadro di “federalismo competitivo”, foriero di pericolose conseguenze per
l’unità nazionale, appare decisamente curiosa la pretesa di poter annullare qualsiasi atto legislativo delle Regioni attraverso
il vago richiamo al pregiudizio di quell’“interesse nazionale” da porre al
vaglio del «Parlamento in seduta comune» che potrebbe condurre
all’annullamento di una legge regionale (art. 127, comma 2): di quale
pregiudizio potrebbe infatti parlarsi se è la Costituzione a fissare le
competenze e a dire cosa le Regioni possono e non possono fare? Ed entro quali
confini verrà esercitato il “pregiudizio dell’interesse nazionale”?
Ci si trova di fronte in realtà ad un vero e
proprio pasticcio giuridico. Dopo aver quindi riaffermato la rigida
ripartizione di competenze legislative adottate dal nuovo Titolo V dell’Ulivo
(legislazione esclusiva e legislazione concorrente con competenze distinte) e
la succitata costituzionalizzazione del principio della diversità di
trattamento attraverso la formula della “tutela dei livelli essenziali”, ecco
spuntare fuori dal cilindro una forma di controllo sulle leggi regionali da
affidare agli equilibri politici del momento (controllo parlamentare) e non al
giudizio della Corte Costituzionale sulla base della ripartizione di
competenze. È in sostanza aperta la porta ad innumerevoli ingerenze e
conflitti.
Il centrodestra, così, da un lato conferma il
sistema di ripartizione delle competenze legislative attuato dal centrosinistra
che, al di là di una discussione di merito sull’impianto e finalità complessive
delle due riforme da innestare nel processo di unificazione europea, ha già
dato ampia prova d’inefficienza: vedasi l’imponente numero di conflitti
Stato-Regioni innanzi alla Corte Costituzionale. Dall’altro, il centrodestra
complica ulteriormente il tutto introducendo il meccanismo arbitrario dell’art.
127, comma 2 per annullare eventualmenti atti delle Regioni emanati sulla base
delle competenze loro attribuite.
Il principio di sussidiarietà
Un cenno a parte
merita il principio di sussidiarietà orizzontale. Tale innovativo principio è stato introdotto nel nuovo Titolo
V approvato dall’Ulivo con l’art. 118, comma 4: «Stato, Regioni, Città metropolitane, Province e
Comuni favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati,
per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio
di sussidiarietà». Un articolo già del tutto chiaro,
ma che il centrodestra si è preoccupato di ribadire all’art. 114, comma 1: «La Repubblica è costituita dai Comuni, dalle Province, dalle Città
metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato, che esercitano le loro funzioni
secondo i princìpi di leale collaborazione e di sussidiarietà».
Il combinato disposto dei succitati articoli è
tale da stravolgere anche il rispetto dei princìpi e delle tutele stabilite
nella Prima parte della Costituzione.
In un sol colpo, i compiti della Repubblica (attenzione, non il solo Stato) diventano
la promozione degli interessi d’impresa nell’esercizio di funzioni pubbliche,
senza che vengano definiti un minimo di criteri. “Riconoscere” e “favorire”
l’attività dei “cittadini, singoli e associati” (in pratica, chi mai saranno
questi “cittadini” che si preoccuperanno di erogare ad esempio energia
elettrica? Persone
normali o forse grandi imprese?) per l’esercizio di funzioni pubbliche
significa aprire la strada alla mercificazione dei servizi pubblici, su cui lo
Stato non dovrà interferire, ma semmai intervenire solo quando ci sarà da mettere mano al portafoglio. In linea di
principio, infatti, il “riconoscere e favorire” implica un obbligo a non
intervenire, a meno che il privato non sia totalmente assente o manifestamente
incapace. Ma questo chi potrà legittimamente stabilirlo? Insomma ci sono spazi
per maneggi ed imbrogli.
Il premierato del centrodestra e
quello del centrosinistra
Nella riforma costituzionale del centrodestra,
il Capo del Governo non è più chiamato presidente del Consiglio dei
Ministri, bensì Primo Ministro. Questa non è solo una sfumatura semantica ma
rispecchia esattamente i poteri nel Governo.
La politica del Governo sarà infatti
non più decisa dall’intero Consiglio dei Ministri ma dal solo Primo ministro
(art. 95). Fino ad oggi, infatti,
i ministri sono nominati dal Presidente della Repubblica (su indicazione del
Presidente del Consiglio) e la politica del Governo è diretta dal Presidente del Consiglio che coordina l’attività dei Ministri. Con la riforma, invece, il Primo ministro nomina e revoca gli
altri ministri a suo insindacabile giudizio (art. 95, comma 1) e la politica
del Governo è determinata dal Primo
ministro che dirige l’attività dei
Ministri (art. 95, comma 2). Nel Consiglio dei Ministri il Primo ministro non è
più un primus inter pares, ma il capo
assoluto.
Il Primo Ministro verrà eletto
direttamente dal popolo (art. 92, comma 2) e non necessita della fiducia della
Camera per insediarsi (art. 94, comma 1): la Camera dei deputati si esprimerà
con un “voto sul programma”, senza fare menzione della necessità della fiducia
e senza prevedere cosa succeda in caso di voto negativo.
Il Primo Ministro, anche senza dimettersi, può imporre al Presidente della
Repubblica di sciogliere la Camera portando così il Paese a nuove elezioni
politiche (art. 88, comma 1). In questo modo il Primo Ministro gestirà le
elezioni nella pienezza dei propri poteri.
Sono queste alcune delle principali
novità del modello di premierato
realizzato dal Centrodestra, uno dei pezzi forti del progetto di revisione
costituzionale definitivamente approvato in quarta lettura dal Senato il 16
novembre 2005, che però, va notato, si colloca nel solco delle indicazioni
contenute nella Bozza Amato del
dicembre 2003, sottoscritta da tutti i leader del centrosinistra: «Per garantire il rispetto della volontà
politica degli elettori e per evitare il rischio di uno scollamento tra
cittadini e sistema politico, è giusto che non siano legittimati i cosiddetti
ribaltoni. In questo senso, si conviene sul fatto che debba rendersi noto,
contestualmente alla pubblicazione del programma elettorale, il nome del
candidato alla guida del Governo, senza tuttavia farne oggetto di separata
menzione nella scheda elettorale. Egli sarà poi nominato dal Presidente
della Repubblica e investito della fiducia iniziale del Parlamento (o della
Camera). In caso di sfiducia, e su sua proposta, vi sarà lo scioglimento a
meno che una mozione costruttiva votata dalla maggioranza iniziale, comunque
autosufficiente anche se integrata o eventualmente ridotta, non proponga un
diverso candidato».
La Bozza
Amato prevedeva già dunque l’istituzione del premierato (ed anche delle
cosiddette norme antiribaltone), che indubbiamente il centrodestra ha
ripreso e varato in una versione più hard.
Del resto, anche nel programma elettorale dell’Unione (febbraio 2006) si
afferma di voler riprendere le elaborazioni della Commissione Bicamerale (1997)
di D’Alema, «un progetto su cui maggioranza e opposizione avevano trovato un
largo accordo». Sul premierato,
centrosinistra e Rifondazione concordano nella «attribuzione al Primo Ministro del potere di proporre al Presidente della Repubblica
la nomina e revoca di ministri, viceministri e sottosegretari; una migliore
regolamentazione della questione di fiducia, con la previsione di specifici
limiti al suo esercizio; la possibilità di sfiduciare il Primo Ministro solo
attraverso una mozione di sfiducia costruttiva, con l’esplicita indicazione di
un candidato successore».
La sfiducia costruttiva
Se la riforma votata dal centrodestra verrà confermata dagli elettori, la
Camera dei Deputati potrà essere facilmente sciolta su richiesta del Primo
Ministro o in conseguenza delle sue dimissioni. Unica possibilità per evitare lo scioglimento
anticipato, «una mozione presentata e approvata
(…) dai deputati appartenenti alla
maggioranza espressa dalle elezioni in numero non inferiore alla
maggioranza dei componenti della Camera, una mozione nella quale si dichiari di
voler continuare nell’attuazione del programma e si designi un nuovo Primo
ministro (nuovo
art. 88 e, quasi eguale, art. 94, comma 5)».
In pratica, la fiducia al nuovo
primo ministro verrebbe ad essere contemporanea alla sfiducia espressa nei
confronti del precedente (la cosiddetta “sfiducia costruttiva”). Si noti però
bene: la mozione di sfiducia dovrà essere sostenuta da un numero di deputati
(appartenenti alla maggioranza espressa dalle elezioni) non inferiore alla
maggioranza dei componenti della Camera, ossia non inferiore a 260 su 518.
Ciò significa che al premier da
rimuovere sarà sufficiente contare sul sostegno di pochi fedelissimi per
impedire qualsiasi sfiducia costruttiva. Il numero dei deputati sufficienti ad
impedire la sfiducia costruttiva è dato sottraendo 260 dal numero di deputati
della maggioranza. Più è piccola la distanza numerica tra maggioranza ed
opposizione e più è a rischio la possibilità di approvare una mozione di
sfiducia costruttiva in quanto minore è il numero di deputati sufficiente a
farla fallire. Nel caso limite di una maggioranza di 260 deputati contro i 258
dell’opposizione1 sarà
sufficiente che un solo deputato della maggioranza non firmi la mozione di
“sfiducia costruttiva” per farla fallire. A quel punto la Camera dovrà decidere
se sfiduciare il Primo Ministro (sfiducia normale, non costruttiva), e così
facendo provocare lo scioglimento della Camera e nuove elezioni, oppure
confermare la fiducia al Primo Ministro in carica.
Allo stesso modo, però, lo
scioglimento potrebbe essere provocato anche per iniziativa di una piccola
minoranza interna alla maggioranza di governo, in quanto il Primo ministro sarà
costretto alle dimissioni «qualora una mozione di sfiducia
venga respinta con il voto determinante
di deputati non appartenenti alla maggioranza espressa dalle elezioni» (nuovo art. 94, comma 4). In altre parole, la mozione di sfiducia,
anche se respinta, provocherà lo stesso le dimissioni del Primo ministro, e
conseguente scioglimento anticipato della Camera, se i voti della maggioranza
uscita vincente dalle elezioni non dovessero raggiungere, da soli, la
maggioranza assoluta dei componenti la Camera dei Deputati.
Se le modifiche costituzionali
verranno quindi confermate, in conseguenza degli automatismi legati alle norme
“antiribaltone” il Parlamento sarà costretto a subire qualsiasi ricatto
provenga dal Primo Ministro, come anche da parte di qualche settore minoritario
interno alla maggioranza uscita vincente dalle elezioni. Si pensi a quanto
successo in seguito alle crisi politiche delle maggioranze dei governi
Berlusconi nel 1994 e Prodi nel 1998. Con il nuovo testo costituzionale,
entrambe le crisi si sarebbero immediatamente risolte con lo scioglimento
anticipato delle Camere, senza alcuna possibilità di passaggi tecnici o di
diverse soluzioni parlamentari. Come
la logica del principio antiribaltone impone, il sistema è forzatamente portato
a risolvere con lo scioglimento tutte le tensioni politiche all’interno della
maggioranza di governo. Uniche eccezioni, la possibilità della “sfiducia
costruttiva” o l’azione di Governi (di fatto) “di minoranza”, con il premier
cioè che fa approvare dei progetti di legge anche grazie, eventualmente, al
possibile soccorso (o l’assenza) dei voti di parte dei deputati
dell’opposizione.
Eppure quelli che appaiono punti di forza del
futuro Premier, potrebbero rivelarsi anche i suoi maggiori punti di debolezza.
Il ricatto dello scioglimento anticipato può valere, infatti, soltanto in
presenza di uno zoccolo duro di forze politiche in grado di garantire la
rielezione (sua e/o della maggioranza che lo sostiene). Ecco, quindi, come le
parti potrebbero invertirsi, con il Premier e la maggioranza che lo sostiene
costretto a subire i ricatti delle forze minori per non essere trascinato, dal
meccanismo antiribaltone, in elezioni dall’esito più che incerto senza quel
2-4% di voti che nei sistemi maggioritari è in grado di fare la differenza.
Da tutto questo quadro di misure e contro misure
emerge una scomoda verità per i fautori della “logica antiribaltone”: qualsiasi rimedio si rivela peggiore del male.
Il presidente della Repubblica
Con la riforma del centrodestra, il presidente della Repubblica ha il nuovo
compito di «garante della Costituzione e
dell’unità federale della Repubblica» (art. 87, comma 1). Che significa
essere «garanti della Costituzione»?
Non è compito della
Corte Costituzionale? In quali atti, poi, e con quali modalità il Presidente
potrà esercitare questa funzione? E se questa attribuzione si sostanzierà in
una invasione di campo dell’attività della Corte costituzionale? Allo stesso
modo, come eserciterà il presidente il proprio compito di «garante dell’unità federale della
Repubblica»? Intromettendosi negli atti del
Parlamento e del Governo?
Il presidente della Repubblica potrà
inoltre nominare il vicepresidente del Consiglio Superiore della Magistratura, «nell’ambito dei componenenti eletti
dalle Camere»: in questo modo, il CSM sarà
un’assemblea i cui organi supremi (presidente e vicepresidente) non sono di sua
scelta. Attualmente, il CSM elegge, tra le proprie fila di magistrati, il
vicepresidente, che per prassi consolidata è di fatto il “vero presidente”,
dato che il Capo dello Stato non prende parte ai suoi lavori. Ma un Capo dello
Stato “interventista” potrebbe decidere di dirigere i lavori del CSM, tanto più
che questi sceglierà lui stesso il proprio vice.
Se il Presidente guadagna così
questi poteri, ne perde al contempo altri. Intanto non tutti i Presidenti della
repubblica potranno nominare Deputati a vita poiché l’art. 59 recita: «il numero totale dei deputati di
nomina presidenziale non può in alcun caso essere superiore a tre». Inoltre, mentre ora il Presidente può, di propria iniziativa,
sciogliere una o entrambe le Camere, con la riforma egli perde questa
discrezionalità e sarà costretto a sciogliere la Camera (il Senato non si
scioglie mai) su ordine altrui. Il Presidente infatti potrà sciogliere la
Camera (art. 88) solo in caso di: richiesta del Primo Ministro, morte o grave
impedimento del Primo Ministro, dimissioni del Primo Ministro, voto di sfiducia
della Camera. Tutte, cioè, motivazioni indipendenti dalla sua volontà. Il
Presidente sarà dunque mero esecutore di volontà altrui (Primo Ministro o
Camera) e questa è la limitazione più grave rispetto alle attuali competenze
presidenziali. Il presidente non avrà poi più il potere di autorizzare la
presentazione alle Camere dei disegni di legge del Governo (art. 87).
Il “Bicameralismo asimmetrico”. Il
Senato federale
Scompare il “bicameralismo perfetto” disegnato
dai costituenti del 1948. Esistono due Camere: la Camera dei
Deputati ed il Senato Federale della Repubblica,
ciascuna con il proprio ambito legislativo. Le due Camere non svolgeranno le
medesime attività, ma una sorta di separazione delle competenze che nella
propaganda degli ideatori dovrebbe esaltare il diverso ruolo attribuito alle
due Camere e semplificare il processo legislativo. Questo sia per quanto
riguarda il rapporto con il Governo, dato che il voto di fiducia spetta alla
sola Camera dei Deputati ed è solo questa Camera che potrà essere sciolta
anticipatamente in conseguenza dell’impossibilità di proseguire la legislatura
con la maggioranza uscita vincente dalle elezioni; sia sotto il profilo del
processo di formazione delle leggi, con competenze distinte per le due Camere.
Dopo l’approvazione di una legge da
parte della Camera dei Deputati per le materie di sua esclusiva competenza, è
previsto un solo passaggio nel Senato Federale. Sulle eventuali modifiche
proposte dal Senato, la Camera decide nuovamente ma in via definitiva, senza
alcuna necessità di un eventuale ritorno della legge al Senato Federale,
accorciando così i tempi di approvazione delle leggi. Stesso procedimento per
le materie attribuite alla competenza esclusiva del Senato Federale, che non
vota la fiducia al governo e che non subisce le conseguenze (scioglimento
anticipato) di una crisi di Governo.
Uno degli aspetti più “originali” di
questo meccanismo di formazione delle leggi, però, è stato quello di assegnare
al Senato federale, non legato alle
sorti del Governo da alcun tipo di rapporto fiduciario, la competenza esclusiva anche per
alcune materie attinenti la sfera tipica dell’azione di governo, quali la
determinazione dei princìpi fondamentali per le materie di legislazione
concorrente tra Stato e Regioni riservate alla legislazione dello Stato. Di
fronte a tanta incongruenza il nuovo testo prevede, si fa per dire, dei
correttivi. Nel caso, infatti, «il Governo ritenga che proprie modifiche a un disegno di legge,
sottoposto all’esame del Senato ai sensi del secondo comma, siano essenziali
per l’attuazione del suo programma approvato dalla Camera ovvero per la tutela
delle finalità di cui all’articolo 120, secondo comma, il Presidente della
Repubblica, verificati i presupposti costituzionali, può autorizzare il Primo
ministro ad esporne le motivazioni al Senato federale, che decide entro trenta
giorni. Se tali modifiche non sono accolte dal Senato, il disegno di legge è
trasmesso alla Camera dei deputati che decide in via definitiva a maggioranza
assoluta dei suoi componenti sulle modifiche proposte» (nuovo art. 70 quinto comma).
Ad aggiungere poi confusione a
confusione, l’inevitabile necessità di risolvere eventuali problemi di
competenze. Chi e come deciderà a quale Camera spetti la competenza esclusiva
sui progetti di legge in discussione? Un organismo di controllo tipicamente
giurisdizionale, quale potrebbe logicamente essere la Corte Costituzionale, o
un organismo di tipo politico?
Il nuovo testo costituzionale ha preferito affidarsi agli umori e agli
equilibri politici del momento: «I Presidenti del Senato federale
della Repubblica e della Camera dei deputati, d’intesa tra di loro, decidono le
eventuali questioni di competenza tra le due Camere, sollevate secondo le norme
dei rispettivi regolamenti, in ordine all’esercizio della funzione legislativa.
I Presidenti possono deferire la decisione ad un comitato paritetico, composto
da quattro deputati e da quattro senatori, designati dai rispettivi Presidenti.
La decisione dei Presidenti o del comitato non è sindacabile in alcuna sede» (nuovo art. 70 sesto comma).
Ci troviamo dunque di fronte ad un “bicameralismo
asimmetrico” in cui si attribuiscono competenze tipiche dell’azione di governo
ad un Senato che non vota la fiducia e non subisce le conseguenze delle
eventuali crisi di Governo. La Camera, votata dagli elettori per il Governo del Paese con tanto di
indicazione del Primo Ministro, solo a seconda degli umori del Presidente della
Repubblica potrà avere, o non avere, voce in capitolo riguardo la
determinazione dei princìpi fondamentali nell’ambito della legislazione
concorrente, in quanto prioritariamente affidati al Senato Federale. Non solo: anche in ordine alla corretta
attribuzione delle competenze, affidata ai Presidenti delle Camere, è facile
prevedere il moltiplicarsi del numero dei conflitti tra Stato e Regioni. Un
meccanismo, dunque, che non farà altro che produrre conflitti e inefficienze.
Una confusione che il centrosinistra rileva e denuncia, ma che di fatto andrà a
riproporre giacché condivide l’assunto di superare«l’attuale bicameralismo paritario, ovvero istituendo un Senato che sia
camera di effettiva rappresentanza delle regioni e delle autonomie» (programma dell’Unione, febbraio 2006). Sarà curioso –diciamo così– vedere le proposte reali del
centrosinistra.
La riduzione del numero dei
parlamentari
Con la riforma costituzionale all’esame degli elettori con il referendum
del 25-26 giugno 2006 «viene ridotto il numero dei parlamentari: da 950 a
773, con significativo risparmio per le finanze pubbliche». Questo ci dice il «decalogo della riforma costituzionale» ad opera del
leghista Roberto Calderoli. Per risposta, il controdecalogo a cura del
centrosinistra ribatte che «la riduzione del numero dei
parlamentari viene rinviata al 2016 per favorire gli attuali capi e capetti.
Nel lungo periodo c’è tempo anche per ridurre la riduzione; per ora c’è
l’effetto di un annuncio demagogico che mette in evidenza che tale riduzione
non scatterà immediatamente, ma soltanto nel 2016».
Nella sostanza, quindi, le ragioni
per il NO alla riforma da parte del centrosinistra divergono da quelle per il
SI soltanto per i tempi per l’entrata in vigore, temendo addirittura dei
ripensamenti circa questa riduzione. Peraltro, nelle intenzioni del
centrosinistra, vi è una riduzione ancora più ampia: proposte che sicuramente
solleticano il sentire comune popolare, legittimamente nauseato dall’attuale
classe politica sempre più lontana dai bisogni dei cittadini.
Peccato, però, che questi umori popolari nei confronti della politica
vengano quasi sempre utilizzati dalla politica stessa per ridurre gli spazi
della rappresentanza democratica attraverso meccanismi che, in un modo o
nell’altro, siano comunque in grado di cancellare dalla rappresentanza
istituzionale ampi settori di elettorato. Tagliare il numero dei parlamentari
significa infatti ridurre il numero dei seggi. Questo elemento, combinato con
il meccanismo elettorale maggioritario, concorrerà a ridurre ancor più la
corretta e democratica rappresentanza degli interessi sociali.
Al Senato, con l’attuale legge
elettorale (che può essere riassunta con la formula “maggioritario di
coalizione con distribuzione proporzionale all’interno delle coalizioni”),
nelle Regioni con meno seggi a disposizione si sono avuti casi nei quali
alcune liste minori non hanno conquistato seggi, e questo pur appartenendo alla
coalizione vincente ed avendo superato la soglia di sbarramento del 3%. Questo
per effetto di quella che tecnicamente viene definita “soglia di sbarramento
implicita”, dipendente dal tipo di ripartizione, dal numero dei partiti in
lizza e, soprattutto, dal numero delle circoscrizioni elettorali ed il numero,
quindi, dei seggi a disposizione per ogni circoscrizione (nel caso in esame le
Regioni)2. In una regione come il Molise, ad
esempio, con soli 2 seggi a disposizione, si è avuto il caso di partiti come
Rifondazione, Di Pietro-Italia Valori ed
Alleanza Nazionale che non hanno ottenuto alcun seggio pur avendo superato in
coalizione il 3%, e conseguendo rispettivamente il 5,4%, l’8,5% ed addirittua
il 14,2%. Ma al di là di questo caso particolare, nelle altre Regioni con più
seggi a disposizione si deve registrare l’esclusione dalla ripartizione dei
seggi di liste con risultati ben al di sopra del 4%. È quindi evidente che,
anche con l’attuale legge elettorale, la diminuzione dei seggi a disposizione
delle singole Regioni provocherà l’ulteriore innalzamento della “soglia di
sbarramento implicita”, il tutto a danno delle forze politiche minori.
Ma anche in termini di efficienza sul piano dei costi la riforma rischia di
produrre efetti del tutto opposti a quelli propagandati. La riduzione dagli
attuali 630 deputati ai 518 previsti dalla riforma appare soltanto come una
diminuita efficienza della capacità di approfondire le questioni, che
costringerà inevitabilmente ad “esternalizzare”, in misura maggiore, gran parte
del lavoro parlamentare verso l’esercito degli ignoti collaboratori che già ora
assolve una buona percentuale del lavoro parlamentare. Basti pensare alla sola
legge finanziaria, un volume di carta da leggere in grado di riempire una
stanza da letto: ma chi è che può ancora credere che dietro tutta questa
produzione vi siano i soli 640 deputati? Pensare quindi che i futuri
parlamentari non trovino il modo per finanziare l’accresciuta necessità di collaboratori
è una pia illusione. Le spese della politica non diminuiranno affatto con la
diminuzione dei parlamentari, ma anzi è forte il rischio che possano aumentare.
Indipendenza
20 giugno 2006
1 Eventualità attualmente impossibile con
l’attuale sistema elettorale, il “maggioritario di coalizione” varato dal
centrodestra, con il suo “premio di maggioranza” in seggi per la coalizione
vincente (foss’anche per un solo voto).
2 La nuova legge elettorale non ha nulla a che vedere con il sistema proporzionale. Il sistema della distribuzione dei seggi, infatti, è proporzionale soltanto all’interno delle coalizioni. Diversamente, stabilita la coalizione vincente, fosse anche solo al 25-30% (nel caso che ad esempio si presentino al voto tre coalizioni di pari forza), questa riuscirebbe ad ottenere la maggioranza parlamentare, realizzandosi così un “maggioritario di coalizione” al posto di quello dei collegi uninominali. Nel caso che nessun partito o coalizione riesca a raggiungere l’assegnazione di almeno 340 seggi alla Camera (il 55%), al partito o alla coalizione che avrà ottenuto un voto in più degli altri verrà assegnato un premio di seggi sino al raggiungimento di questa quota. Per l’assegnazione della maggioranza parlamentare, quindi, il sistema è tipicamente maggioritario, allo stesso modo dei collegi uninominali: chi ottiene un voto in più, prende l’intera posta. Continuare a definire, quindi, l’attuale legge elettorale di tipo proporzionale, serve soltanto per alimentare la confusione. Tanto più che anche per l’assegnazione dei restanti seggi agli sconfitti, il sistema prevede sì la ripartizione di tipo proporzionale, ma anche delle soglie di sbarramento. Sommando quindi le due cose, premio di maggioranza e quote di sbarramento, della logica proporzionale rimane decisamente nulla.
***
LA STRATEGIA DELLE RIFORME
ISTITUZIONALI
–Dal rapporto della Commissione Trilaterale alla riforma costituzionale del centrodestra
Con il referendum costituzionale del 25-26 giugno
2006, una opinione pubblica frastornata dovrà scegliere se respingere o confermare
lo snaturamento di tutto l’ordinamento della “Repubblica delle autonomie”,
“democratica” e “antifascista”, “fondata sul lavoro”, nata dalla Resistenza.
Il
pericolo è che tutto si consumi nella inconsapevolezza organizzata dalla
“sinistra di governo” che, anziché denunciare il rivolgimento antidemocratico
squadernato dalla maggioranza berlusconiana, dice di votare NO perché quella
del centrodestra è una riforma costosa e confusa (sic!), e non perché introduce
la “dittatura del premier” e del governo sul bicameralismo di due Camere
separate per compiti e per funzioni, come era nel bicameralismo
sette-ottocentesco.
Siamo quindi ad una sorta di ultima spiaggia per una Costituzione democratico-sociale detta e riconosciuta come di democrazia-avanzata, rispetto a tutte quelle di modello liberale che, come quella statunitense, sono ferme al sette-ottocento, con forme istituzionali fondate sul dominio dall’alto di un “capo” e del governo sul Parlamento e sulla società. Costituzioni elaborate quando non c’erano ancora né lo Stato democratico né le concezioni democratiche moderne che nel 1948 diedero, con la Costituzione italiana, forma giuridica a quelle che erano le domande e le aspirazioni popolariuscite provate e rese consapevoli da un secolo di monarchia/liberale, 20 anni di fascismo, due guerre mondiali e dalla Resistenza popolare e guerra di Liberazione. Il che dimostra che diritto e Stato hanno forma storicamente mutevole, contro le pretese delle ideologie giuridiciste e delle concezioni astratte del diritto che vogliono cristallizzare e fermare alle origini settecentesche la teoria giuridica.
Superando tali giuridicismi
e conferendo un “uso alternativo” all’applicazione del diritto in funzione
delle aspirazioni popolari e sociali, è derivata una originalità della Costituzione italiana, che rischia di essere
spazzata via se il 25 giugno non vincerà il NO alla riforma autoritaria del
centrodestra, bloccando i progetti delle classi dominanti capitalistiche
fautrici di una forma di governo di
tipo “autoritario” condivisa da entrambi i poli. Si vuole cancellare la
Costituzione in nome dell’ideologia del primato del mercato d’impresa, e
schiacciare la democrazia sotto il potere privato dell’impresa capitalista,
utilizzando anche princìpi come quello
della sussidiarietà dello Stato rispetto alle imprese anche nell’esercizio
delle funzioni pubbliche. Principio introdotto nel 2001 con la riforma del
Titolo V dell’Ulivo, il cui referendum confermativo del 7 ottobre 2001 vide
recarsi alle urne solamente il 35% del corpo elettorale. Una riforma che aprì
la strada a quella del centrodestra che, se il 25 giugno
risultasse vincitore il SI, stravolgerebbe le forme di Stato e di governo della Repubblica
definite dalla Seconda Parte della
Costituzione.
Questo nel mentre lo stesso
Comitato per il NO al progetto di Berlusconi presieduto da Oscar Luigi
Scalfaro, dice solo di difendere ma non di rilanciare nella sua integrità quei
valori e princìpi sociali che rendono così peculiare la Prima Parte della nostra Costituzione. Questa Prima Parte la
si vuole rendere lettera morta
modificando la Seconda nelle forme di
organizzazione politica-economica e sociale, che i partiti costituenti del 1948
concepirono quanto più possibile coerente con i princìpi della Prima.
La
valenza della Prima Parte della
Costituzione
Il
punto è decisivo e merita di essere circostanziato. La Prima Parte della nostra Costituzione non solo è stata innovativa
nel campo dei diritti civili –cari alla cultura liberale– e dei diritti sociali
(entrambi storicamente minati in nome del “liberismo”), ma soprattutto ha
promosso un intervento diretto a «rimuovere
gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e
l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana
e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica,
economica e sociale del Paese» (art. 3 della Costituzione).
È
a causa di queste indicazioni pienamente democratiche che la nostra
Costituzione è sempre stata “travisata” e “perseguitata” (da forze occulte e
palesi, nazionali e internazionali). Essendo la nostra una Costituzione
“interventista” in campo economico-sociale, indicante precisi orientamenti allo
Stato e alle stesse forze politiche e sindacali, senza cui, dice la Costituzione,
non si realizza né l’eguaglianza giuridica, né il pieno sviluppo della persona
umana, con grave danno alla stessa democrazia.
La
nostra Costituzione repubblicana, dunque, redatta sotto la spinta di partiti e
forze sociali democratiche e antifasciste, non solo ruppe con il modello
monarchico/liberale dello Statuto Albertino, in cui la fonte primaria di
legittimazione del potere politico era rappresentata dal re e dalla sua
dinastia che governavano per volere divino. Essa ha soprattutto inaugurato un
inedito modello di democrazia nel campo dei poteri politico-economico-sociali,
col nesso stringente tra democrazia politica e democrazia sociale, tra forma di governo (sistema di rapporti e
modi in cui viene ripartito il potere tra gli organi supremi dello Stato) e forma di Stato (il modo in cui è
regolato il rapporto tra “governanti” e “governati”, cioè tra istituzioni e
società, quindi l’articolazioneterritoriale del potere) finalizzato ai
compiti che lo Stato si propone di raggiungere ed ai valori cui ispira la
propria azione, per cui tutti i rapporti istituzionali sono organizzati in
maniera strumentale e per fini non di mantenimento ma di trasformazione dei
rapporti sociali, come nessuna Costituzione liberale può e potrebbe mai
riconoscere.
Il
nostro modello costituzionale si è così posto all’avanguardia delle
Costituzioni post-fasciste, in quanto legittimante quel processo di trasformazione della società e dello
Stato capitalistico perseguibile con il concorso pluralistico dell’azione delle
forze sociali e politiche, costituzionalizzazione del diritto di sciopero
incluso. In questo
contesto il Parlamento, autonomo dal potere esecutivo che invece lo domina nei
regime liberaldemocratici, costituisce il luogo di istituzionalizzazione della
sovranità popolare anche sui poteri economici, con il controllo politico e
sociale della produzione e delle imprese.
La
nostra Costituzione, dunque, se vuol essere anche solo difesa, deve essere
rilanciata nei suoi valori e novità sociali, ribadendo il nesso indissolubile
tra Prima e Seconda Parte che centrosinistra in primis e centrodestra
condividono nel voler spezzare, non potendosi difendere i valori della Prima
Parte contraddicendoli con l’attacco alla Seconda pensata e finalizzata ad
attuare quelli.
Attacco
alla democrazia. Il rapporto della Commissione
Trilaterale del 1975
Questo
ben sanno le oligarchie politiche ed economiche ‘nazionali’ e soprattutto
transnazionali che mai si proclamano contro Princìpi e valori della democrazia,
ma in nome della democrazia (cfr., ad esempio, anche il Piano di Rinascita
democratica di Gelli) vogliono “mezzi” utili non ai fini della democrazia ma
del primato del mercato sulla democrazia. Le premesse dell’attacco organico
alla Seconda Parte della Costituzione
sono rintracciabili nella famosa ma obliata riunione della Commissione Trilaterale del 1975.
La Commissione
Trilaterale (www.trilateral.org) è un’organizzazione fondata nel 1973 per iniziativa dell’influente
oligarca USA David Rockefeller, ex
presidente della Chase Manhattan Bank. All’atto della fondazione, il
direttore operativo era Zbigniew Brzezinski. Questi successivamente divenne
Consigliere Speciale per la Sicurezza USA sotto la presidenza Carter,
evidenziandosi come importante sostenitore dei
finanziamenti ed aiuti in armi ed addestramento dei servizi segreti USA ai mujaheddin afghani1.
La Trilaterale ha sede sociale a New York eriunisce alcune centinaia fra i più
influenti personaggi del mondo industriale e finanziario, politico, dei mass
media, universitario (persino sindacalisti) di Stati Uniti, Europa e Giappone.
L’obiettivo dichiarato è quello di promuovere una cooperazione più stretta tra
queste tre aree, richiamate dal nome stesso, Tri-lateral appunto: l’Europa, già
allora, era considerata come un’entità geopolitica unitaria, ovviamente
subordinata agli USA, le cui oligarchie dettano le strategie che Londra, Roma,
Bonn, Parigi, Tokio, eccetera sono chiamate ad applicare.
Il primo
studio della Commissione Trilaterale
è significativamente intitolato The Crisis of Democracy: Report
on the Governability of Democracies
(New York University Press, 1975), un lavoro concotto da Michel
Crozier, Samuel Huntington e Joji Watanuki, tradotto in Italia dalla Franco
Angeli (La crisi della democrazia, 1977) con una prefazione del defunto
Gianni Agnelli2.
Il
rapporto è pervaso da una profonda avversione per la democrazia, con forti
critiche al Parlamento ma soprattutto alla non passività
di sempre più ampi strati della popolazione. Lo
studio denunciava una debolezza strutturale degli esecutivi rispetto al potere
legislativo ed esprimeva turbamento per la crescente partecipazione popolare di
quegli anni. La democrazia, sostiene la Trilaterale, finisce per coinvolgere troppo i cittadini, li “protegge”
con il Welfare State e allo stesso
tempo li rende attivi, sospingendoli a un eccesso di rivendicazioni che in
ultima istanza pregiudicano la funzionalità dell’economia capitalistica. Sotto
accusa finisce anche il ceto intellettuale, giudicato irresponsabile e
inaffidabile, ed i media, che distorcerebbero le informazioni, amplificando i
problemi sociali. Un forte richiamo è indirizzato anche alle «istituzioni responsabili dell’indottrinamento» dei giovani –scuole, media, chiese, eccetera– per agire ed
invertire quella che la Trilaterale
chiamava appunto “la crisi della democrazia”.
Se
in precedenza l’obiettivo condiviso, almeno a parole, dalle forze politiche che
si definivano “democratiche” era di ampliare gli spazi di partecipazione dei
cittadini ed allargare le procedure democratiche anche verso ambiti esterni
alla sfera politica come l’impresa, dalla Trilaterale
in avanti la musica cambia. Per i soci della Trilaterale, la crescita della democrazia sociale tra gli anni
1967-1975, traducendosi in un pluralismo politico e sociale –da loro chiamato frantumazione–
e in una conseguente capacità di mobilitazione sociale e politica ed anche di
insorgenza, aveva raggiunto il massimo di democrazia compatibile con il sistema
capitalistico. Per difendere il sistema, diventa prioritaria –per i soci della Trilaterale– l’ideologia della “governabilità”.
Il
Piano P2 di “rinascita democratica”
È a partire da quegli anni che
vengono formulate proposte di “riforme istituzionali”, anche in programmi
“occulti” come il Piano di “rinascita democratica”, documento della loggia
massonica “Propaganda 2”, tra i cui affiliati figuravano militari, magistrati,
politici, imprenditori, giornalisti. Il piano della P2 di Licio Gelli, che si
ritiene risalga al 1975-1976, ebbe notorietà quando fu sequestrato, nel luglio
1982, all’aeroporto di Fiumicino, nel sottofondo di una valigia di Maria Grazia
Gelli, figlia di Licio. Sulla “preveggenza” di quel programma, lo stesso Licio
Gelli, intervistato da la Repubblica
(28 settembre 2003), avrebbe poi detto: «Guardo
il Paese, leggo i giornali e penso: ecco qua che tutto si realizza poco a poco,
pezzo a pezzo. Forse sì, dovrei avere i diritti d’autore. La giustizia, la tv,
l’ordine pubblico. Ho scritto tutto trent’anni fa».
Un piano
che appunto si proclama “di rinascita democratica”, in cui, analogamente a
quanto scritto nel rapporto della Trilaterale,
si afferma di voler difendere la “democrazia”, intendendo in realtà il
funzionamento del sistema capitalistico e la preminenza delle oligarchie
economiche a danno delle sempre più subalterne classi dominate. Una vera e
propria contraddizione in termini, che può essere spiegata, con le dovute
differenze, facendo ricorso ad una categoria usata dallo storico marxista
Domenico Losurdo (vedasi, ad esempio, l’ultima sua opera, Controstoria del liberalismo, Laterza, 2005) a sua volta ripresa da
alcuni studiosi statunitensi: quella di Herrenvolk
democracy, di democrazia che vale solo per il «popolo dei signori», volta ad evidenziare come il “governo della
legge” nell’ambito della comunità bianca negli USA si sia caratterizzato sin
dall’inizio con la schiavizzazione dei neri e l’annientamento dei nativi
americani (i cosiddetti “pellerossa”). Nel nostro caso, il «popolo dei signori» è costituito
principalmente dalle oligarchie industrial-finanziarie nostrane e
transnazionali, che hanno l’obiettivo di adeguare anche la forma di governo alle nuove esigenze richieste dall’attuale fase
capitalistica neoliberista. E se il succitato rapporto della Trilaterale parla di limitare quelli che
vengono definiti “eccessi della democrazia”, il piano della P2 converge con
tali indicazioni affermando esplicitamente di «voler rivitalizzare il sistema», invertendo così quel processo
ambiguamente richiamato di «confusione ed
indebolimento dello Stato».
Senza
in questa sede voler fare un’analisi approfondita del Piano di “rinascita
democratica”, ci limitiamo a focalizzare l’attenzione su alcuni provvedimenti
istituzionali che, analogamente a quanto auspicato dal rapporto della Trilaterale, hanno l’obiettivo di
limitare le prerogative del Parlamento a favore del Governo. Il
Piano parlava di «ripartizione, di fatto,
delle competenze fra le due Camere (funzione
politica alla Camera, funzione economica al Senato)»: così come nella riforma
costituzionale del centrodestra, il fine della suddivisione delle competenze è
presumibilmente quello di accelerare il processo di approvazione di leggi e
provvedimenti. Si vuole impedire in tal modo che eventuali movimenti popolari
di protesta possano incidere tra le forze parlamentari (anche solo per parziali
modifiche) sfruttando i tempi di passaggio e di approvazione tra una Camera e
l’altra.
Per
rafforzare la posizione del Governo, il Piano della P2 parla di «modifica (già in corso) dei rispettivi
Regolamenti per ridare forza al principio del rapporto (Cost. art. 64) fra
maggioranza-Governo, da un lato, e opposizione, dall’altro, in luogo della
attuale tendenza assemblearistica», e di «adozione del principio delle sessioni temporali in funzione di
esecuzione del programma governativo». Si auspicavano anche modifiche della
Costituzione per introdurre il cosiddetto principio della “sfiducia
costruttiva” nei rapporti tra Governo e Parlamento –vale a dire «stabilire che il Presidente del Consiglio è
eletto daIla Camera all’inizio di ogni legislatura e può essere rovesciato
soltanto attraverso le elezioni del successore»– e si intendeva «stabilire che i decreti-legge sono
inemendabili», come dire che il Parlamento non può intervenire sui
provvedimenti varati dal Governo.
Insomma,
si prefigurano una serie di provvedimenti per la stabilizzazione del potere
delle classi dominanti, limitando di fatto così l’agibilità della
democrazia, come richiesto dalla Trilaterale, senza però –si noti bene– mettere
in discussione formalmente i princìpi
e i valori della democrazia stessa. Princìpi e valori esplicitati nella nostra
Costituzione nella Prima Parte.
Questa, dunque, non c’è bisogno di toccarla, tant’è che lo stesso Tremonti,
commentando la riforma costituzionale del centrodestra (intervista ad Affari italiani, 15 giugno 2006), può
affermare che «nessuno ha mai pensato di modificare la Prima Parte
della Costituzione italiana sui grandi e sacri princìpi». Basta semplicemente non
pretendere di metterli in pratica e di attuarli con coerenti e da essi
inscindibili forme di organizzazione dello Stato e dei rapporti
politico-economico-sociali: forme regolate appunto nella Seconda Parte della Costituzione.
Breve
storia dei progetti di riforma costituzionale. Dalla Commissione Bozzi a quella
D’Alema
Sul
piano parlamentare, è nel 1983 che prendono il via una serie di Commissioni
bicamerali per la riforma della Seconda
Parte della Costituzione, che videro la partecipazione anche del PCI.
Ricordiamo
infatti che negli anni Ottanto, all’interno del PCI si convenne sulla necessità
(sic!) di aprire un varco nella Costituzione avviando la deriva che
progressivamente ha portato alla riforma costituzionale del centrodestra, con
l’intermezzo di quella del centrosinistra del 2001. Si passò infatti
all’improvvisa posizione ingraiana (1983), volta a dare al potere di vertice
del governo una forza istituzionale “pari” a quella che il Parlamento aveva
conseguito con la “centralità” degli anni 1970-1975. Un processo che trovò
un’importante tappa negli anni Novanta con il superamento del metodo elettorale
“proporzionale” e l’emanazione di una legge elettorale “uninominale” (con
appendice proporzionale).
Il
PCI (e poi gli “eredi” PDS-DS e Rifondazione comunista) ha comunque partecipato
ai progetti di riforma costituzionale. La prima Commissione bicamerale, su
invito dei presidenti di Camera e Senato dell’epoca, Nilde Iotti (PCI) e
Amintore Fanfani (DC), è quella del 1983 guidata da Bozzi, per la quale si
adoperarono in particolare Augusto Barbera e l’attuale presidente Napolitano,
entrambi provenienti dalla corrente cosiddetta “migliorista” (del capitalismo)
del PCI. La Commissione Bozzi si riunì dall’ottobre 1983 al gennaio 1985,
presentando al termine dei lavori una relazione
per la revisione di 44 articoli della Costituzione, con
l’obiettivo principale di rafforzare il ruolo del presidente del Consiglio e i
suoi poteri di coordinamento e di rivedere l’esercizio della funzione
legislativa. La
Relazione finale fu firmata da DC, PSI, PRI e PLI. Si astennero PCI e
socialdemocratici. Votarono contro MSI-DN, demoproletari, Sinistra indipendente
e Union Valdotaine. Essa rimase comunque lettera
morta, in mancanza di condizioni politiche.
Dalla primavera del 1988 all’estate del 1991 tornò in voga il dibattito sulle “riforme”. Il 18 e 19 maggio 1988 si svolsealla Camera ed al Senato un dibattito sulle riforme istituzionali. Secondo le indicazioni dei Presidenti delle Camera e Senato di allora (Nilde Iotti del PCI, Giovanni Spadolini del Partito Repubblicano), le priorità di riforma erano: Parlamento, autonomie locali, ordinamento della Presidenza del Consiglio, regolamenti parlamentari (tempi certi per l’approvazione dei provvedimenti e modifica della disciplina del voto segreto per limitare la “centralità” che il Parlamento aveva assunto negli anni Settanta), controllo della spesa pubblica anche mediante la riforma della legge finanziaria e di bilancio. Il 26 giugno del 1991 l’allora capo dello Stato Francesco Cossiga inviò un messaggio alle Camere affinché eleggessero un’Assemblea costituente. Cossiga invitava sostanzialmente il ceto politico a prendere atto del mutamento dello scenario geopolitico dopo la caduta del Muro di Berlino, che rendeva antiquata la stessa Costituzione redatta nel dopoguerra.
Un
anno dopo (luglio 1992) nacque la seconda Commissione
bicamerale presieduta da Ciriaco De Mita e da
Nilde Iotti. Nel
dicembre del 1993 formulò un’ampia riforma del rapporto Stato-regioni, che
ribaltava –allo stesso modo della riforma costituzionale del 2001 del
centrosinistra– il criterio di competenza accolto nel testo attualmente vigente
della Costituzione (enumerazione tassativa delle competenze regionali e
attribuzione di tutte le altre competenze allo Stato). Evidente il collegamento
di queste normative con il processo di europeizzazione,
fondato sul primato del mercato, e la correlativa sottrazione di competenze
dallo Stato alle Regioni. Molti degli articoli proposti sono pressoché identici
agli articoli di riforma del Titolo V della Costituzione proposti dal
centrosinistra. I lavori della Commissione bicamerale attribuiscono ad esempio
alle Regioni la potestà di stipulare accordi con analoghi enti territoriali di
altri Stati; disciplinano la loro autonomia finanziaria (con il nuovo art.
119-bis, le entrate delle Regioni sono costituite da tributi propri, proventi derivanti dalla vendita di beni e servizi,
quote di partecipazione al gettito prodotto nelle singole regioni da tributi
erariali con particolare riferimento alle imposte indirette); regolano la
partecipazione delle Regioni
al processo normativo comunitario ed alle relazioni internazionali.
Il progetto di revisione
costituzionale della Commissione De Mita-Iotti prevedeva inoltre l’investitura
diretta da parte del Parlamento del Primo ministro, attribuendo a quest’ultimo
la esclusiva responsabilità sulla nomina e la revoca dei ministri ed
introducendo (così come nel progetto della P2) la succitata “sfiducia
costruttiva”. Oltre a questo: l’introduzione di nuove regole in materia di
bilancio, la non emendabilità dei decreti-legge da parte del Parlamento, la
potestà regolamentare del Governo. Anche allora però tali progetti ebbero vita
effimera.
Dopo che Berlusconi, nel luglio
1994 da presidente del Consiglio, istituì un Comitato di studio sulle riforme
costituzionali presieduto dal leghista Francesco Speroni, si arriva alla
Commissione bicamerale del 1997, presieduta da D’Alema, con la partecipazione
anche di Rifondazione Comunista.
In quella sede erano già state
formulate molte delle proposte ora attuate dal centrodestra. Nel complesso, il lavoro
della Commissione Bicamerale per le riforme costituzionali si concluse con un
progetto di revisione costituzionale imperniato in particolare su una forma di governo di tipo “autoritario” e
di stampo presidenziale, basato sull’elezione diretta del “capo
dell’esecutivo”, il “federalismo” e l’abolizione della centralità parlamentare.
Allora, come ricorda Il Foglio (7 giugno 2006), il relatore ulivista Cesare Salvi «reclamava
un premier eletto dal popolo e in grado di sciogliere le Camere. Del resto
Salvi riproponeva la tesi numero uno del programma elettorale dell’Ulivo
scritta da Giuliano Amato per le elezioni del 1996: “L’adozione d’una forma di
governo centrata sulla figura del primo ministro”, tecnicamente anche detta
premierato».
La
mistificazione del “federalismo”. Il significato della “sussidiarietà”
Cerchiamo
di tirare le somme di quanto detto. Nel
complesso, il progetto del centrodestra non è frutto estemporaneo degli
umori del centrodestra, bensì il punto di arrivo di una strategia le cui radici
vanno rintracciate nel succitato rapporto della Commissione Trilaterale e che si pone l’obiettivo di dotare il
Paese anche di una cornice
istituzionale adeguata alla nuova fase neoliberista ed europeista sotto il
dominio del capitalismo USA. Una cornice
in cui il rafforzamento del potere del Governo, la limitazione della funzione
del Parlamento ed il cosiddetto “federalismo” sono punti essenziali, ed in cui
i vertici delle istituzioni politiche vanno definitivamente posti al servizio
degli interessi d’impresa soprattutto transnazionali, come dimostra la vicenda
di una europeizzazione in cui la sovranità popolare è stata sottoposta al
dominio delle burocrazie “monetariste”.
Dietro
lo sbandierato “avvicinamento” delle istituzioni locali al cittadino –tramite
il cosiddetto decentramento– si vogliono subordinare i territori locali
(Regioni, Province, Comuni) ad una pluralità di centri di governo dall’alto (il presidenzialismo regionale, eccetera)
subalterni a loro volta ad un “centro” sempre più dislocato altrove
(Washington, per il suo tramite di Bruxelles).
Il
principio di “sussidiarietà” è un complemento essenziale del disegno
federalistico di neo-accentramento di ogni vertice autoritario. Dentro questo complicato
termine, si cela l’introduzione del primato dell’impresa nell’esercizio delle
funzioni pubbliche: un punto diventato di fatto legge costituzionale con il
“SI” al referendum sulla riforma del
centrosinistra del 2001, che ha appunto sancito che compito di tutte le
istituzioni –dallo Stato centrale sino all’ultimo comune– è di favorire lo
svolgimento di attività di interesse generale da parte dei “cittadini singoli e
associati” e quindi delle imprese
(nuova formulazione dell’art. 118).
Si
ribadiva allora quanto già previsto nel testo elaborato dall’affossata
Commissione D’Alema. Se il principio di sussidiarietà era già stato introdotto
dal fascismo con la “Carta del lavoro” del 27 rispetto alle attività
economico-sociali, il testo dell’Ulivo addirittura peggiora tale principio
dando ai privati e quindi alle imprese un ruolo preferenziale
anche per l’esercizio di funzioni per tradizione tipicamente “pubbliche” come
appunto quelle concernenti servizi pubblici, sanità, istruzione, eccetera. È
questo un duro attacco ai princìpi dello Stato sociale che la Costituzione
stabilisce nella Prima Parte.
Sotto
il mantello del “federalismo” e dell’“avvicinamento delle istituzioni ai
cittadini” (principio ben verificato dagli abitanti della Val Susa) si
nascondono gli interessi di un’ideologia neoliberista vogliosa di adeguare il
quadro istituzionale alle esigenze dei “mercati finanziari” dominati dalla
burocrazia monetarista e dalla finanza statunitense. Altro che “autogoverno”:
lo smantellamento dei diritti, dello Stato sociale, la flessibilità del
salario, delle condizioni sociali, zona per zona, al fine di soddisfare le
convenienze di profitto del capitale finanziario nostrano e transnazionale è lo
scenario per il quale anche la forma di Stato va adeguata.
Il
dominio dell’esecutivo
Il testo di riforma costituzionale imposto dal
centrodestra coniuga il
“federalismo” anti-autonomistico e neo-centralista con il premierato e legittima il dominio degli esecutivi a danno di
Parlamento, assemblee elettive e autonomie locali in genere.
La riforma del centrodestra
attribuisce al premier il potere non
solo di dirigere, ma di determinare la politica nazionale,
nonché nominare e revocare ministri. Poteri che sono una conseguenza implicita
del fatto che il nome del premier è
già indicato sulle schede elettorali, quindi di fatto plebiscitariamente investito
di tale ruolo dagli elettori, rendendo inoltre in pratica superfluo
l’intervento del capo dello Stato. La riforma del centrodestra cancella di
fatto la fiducia del Parlamento, in cui il premier
si presenta solo per illustrare il suo programma, e limita fortissimamente la
possibilità di incidere da parte del Parlamento sulla struttura e funzionalità
della forma di governo del premier da
parte di qualsiasi gruppo o parlamentare appartenente all’opposizione in nome
dell’ideologia della “governabilità”.
Il tutto in un contesto di
“passività organizzata” dell’elettorato, al quale non rimane altro che votare,
ogni cinque anni, forze politiche contrapposte elettoralmente ma portatrici di
una medesima ideologia di “stabilità” economico-sociale. Un “premierato” che è
–allo stesso modo di presidenzialismo, semi-presidenzialismo e di quel
cancellierato apprezzato anche da correnti di sinistra cosiddetta
“alternativa”– una delle varianti di ingegneria
istituzionale della forma di potere autoritario dall’alto, non prevista ed
anzi esclusa nella nostra Costituzione per via della “centralità” del
Parlamento.
Avendo il centrosinistra
aderito ad una o l’altra di queste forme cesaristiche
di governo, varianti “tecniche” di una sola e unica forma dello Stato
capitalistico, è chiaro che finge di difendere i principi della Costituzione,
del resto già ampiamente “abrogati” dalla precedente riforma del Titolo V del
centrosinistra su prerogative di Regioni ed enti locali e ripartizione di
competenze con lo Stato. Dati di fatto che il centrosinistra mistifica
enfatizzando le norme sulla cosiddetta devolution
imposta dalla Lega, nella inconsapevolezza di massa alimentata in decenni
di proposte di revisione e di attacco al sistema di “governo parlamentare”
fondato sulla centralità del Parlamento e non del governo come è nei sistemi
degli altri paesi europei.
Le forze del centrosinistra,
infatti, condividono il principio, vero vulnus
della Costituzione, di elevare il capo
del governo a premier, vale a
dire porre il governo al di sopra del Parlamento, con un potere monocratico
personale del premier al di sopra di entrambi, come quando dal Re dipendeva il
governo e da questo il Parlamento. In questo modello, che indubbiamente si rifà
alle esperienze britannica e statunitense, l’opposizione è istituzionalmente
esclusa dal potere di indirizzo politico (come potrebbe accadere in un sistema
istituzionale centrato sul Parlamento), rimanendo solo titolare di un
controllo-verifica, utile eventualmente a predisporre l’applicazione del
principio di “alternanza” al governo, nel contesto della su richiamata
“passività organizzata”.
A
questa elevazione dell’esecutivo come dominus
del Parlamento, fa da interfaccia la concertazione
con il governo –e al di sopra del Parlamento– tra le forze rappresentative
di capitale e lavoro nei rapporti di classe. Questo per effetto dell’abbandono
dei due pilastri della “democrazia politica, economica e sociale” assunta nel
modello del 1948. Sul terreno politico,
l’abbandono dell’autonomia del Parlamento dal governo, come portato di un
pluralismo imperniato sul sistema elettorale proporzionale, che fino al 1993
risultava applicato a tutti i tipi di elezione, escluse quelle riguardanti i
piccoli comuni. Sul terreno sociale,
l’abbandono dell’autonomia sociale dei lavoratori e del sindacato di classe
rivendicativo di un nuovo assetto dell’organizzazione della produzione e delle
istituzioni centrali e decentrate (Regioni, province, comuni), che fino a metà
degli anni Settanta seppe dare vita a quelli che si chiamavano appunto
“contratti-riforma” per la democratizzazione e socializzazione dei poteri di
Stato e d’impresa.
La funzione
dei cittadini nella contesa referendaria
Il
nostro auspicio è che il 25-26 giugno vinca il “NO”. Adesso per respingere il modello di revisione “autoritaria” della
Costituzione del 1948 imposto dal centrodestra, successivamente per bloccare il prosieguo della strategia di
“riforme istituzionali”. Ancora in questi giorni i due poli continuano ad
avanzare proposte di dialogo e punti di convergenza per stravolgere la
Costituzione non più da soli ma “insieme”.
Prendiamo ad
esempio le dichiarazioni di un Luciano Violante, capogruppo DS alla
Camera. In una lettera al Corriere
della Sera (12 giugno 2006), l’esponente dei DS auspica che «dopo il 25 giugno si apra un dialogo in
Parlamento tra tutte le forze politiche per individuare le linee guida di una
strategia delle riforme prioritarie ed essenziali, da attuare con leggi
costituzionali ed ordinarie». E cioè, «così
come avviene con il Dpef per la manovra di bilancio, si approvi entro settembre
un documento di programmazione delle riforme, con l’indicazione degli
interventi assolutamente prioritari e del modo in cui realizzarli». A tal
fine Violante apre le porte persino ad una commissione redigente composta da «50 parlamentari e 50 non parlamentari»,
con metà dei componenti designate dai presidenti
delle Camere e gli altri dal capo dello Stato, dall’Anci (Associazione
nazionale Comuni Italiani), dall’Unione Province Italiane e dalla conferenza
delle Regioni.
Insomma,
centrosinistra e centrodestra sono
pronti a concordare uno stravolgimento della Costituzione. Semplicemente, il
centrodestra vorrebbe che prima vinca il SI al referendum; il centrosinistra,
invece, si dichiara pronto all’inciucio
costituzionale dopo la vittoria del NO. Sottolineando, se ce ne fosse ancora
bisogno, che il NO del centrosinistra allo snaturamento berlusconiano di tutto
l’ordinamento della seconda parte della Costituzione è in pratica solo un NI.
Deve
essere chiaro che l’antitesi di fondo nella contesa referendaria non è tra
centrodestra e centrosinistra, ma tra il rilancio dei valori di fondo della
Costituzione e la linea di attacco organico alla Seconda Parte della Costituzione, le cui radici vanno rintracciate
nella riunione della Commissione
Trilateral del 1975 in nome della limitazione della democrazia e
dell’ideologia della “governabilità” per non ostacolare il dispiegarsi pieno
dell’economia di mercato.
È
assolutamente indispensabile rendersi conto della vera posta in gioco. Quel che
si vuole sminuire chiamando “devolution” è in realtà una riforma autoritaria,
centralizzatrice, antisociale e antiautonomistica della forma di governo e gravida di conseguenze anche sulla stessa forma di Stato. Riforma resa possibile
grazie all’affermarsi di due presupposti. Primo: la legge elettorale
uninominale, che permette non solo di sfornare le leggi ordinarie ad uso e
consumo della maggioranza, ma rende facile anche le revisioni costituzionali.
Tant’è che nel 2001, ponendosi sulla stessa lunghezza d’onda della strategia
del Polo, l’Ulivo varò, col risicato scarto di quattro voti di maggioranza sul
centrodestra, la riforma costituzionale del Titolo V, stravolgendo il modello della
“Repubblica delle autonomie” prospettata nei “Principi Fondamentali” (art. 5).
Secondo: l’affermazione del presupposto secondo cui il procedimento di
revisione costituzionale previsto dall’art. 138 (pensato ed elaborato per il
sistema proporzionale che fu subito reintrodotto nel 1945 per tutti i tipi di
elezione) può sconvolgere norme e istituti della Seconda parte della Costituzione senza coinvolgere la Prima.
Presupposto formalizzato poi nella Commissione bicamerale D’Alema, dove la
sinistra, accoppiata alla destra, aveva già previsto di sostituire la Seconda parte della Costituzione
modificando una ottantina di articoli.
Un presupposto di cui si è avvalso anche Berlusconi, che ha modificato una
cinquantina di articoli della Seconda
parte, dicendo di non aver toccato la Costituzione perché ha lasciato
invariati i princìpi e le norme della Prima
parte.
Detto
questo, bisogna però altresì rilevare che, in un contesto politico oltretutto
segnato dal contrasto tra i due Poli per strette ragioni di potere, la funzione
dei cittadini è enormemente cresciuta da quando la maggioranza di
centrosinistra, in occasione del referendum costituzionale del 2001, richiese
il referendum per ottenere l’avallo popolare sulla stessa. Si tratta di
un’eventualità, non di un obbligo: lo conferma il fatto che se, dal 2000 in
poi, tutte le leggi costituzionali (sette) sono state approvate a maggioranza
non qualificata (oltre la metà più uno ma sotto i due terzi), solo in due
occasioni –nel 2001 e nel 2006– è stato richiesto un referendum popolare dal
Polo prima e dal centrosinistra ora per ragioni attinenti la loro
contrapposizione tattica in
Parlamento, ma all’interno di una comune strategia a danno della democrazia
italiana e al ruolo delle classi subalterne. In altri cinque casi non è
accaduto (ad esempio per l’istituzione della circoscrizione estero per
l’esercizio del voto degli italiani residenti all’estero o per il rientro in
Italia dei Savoia).
Andare a votare è allora
dunque molto importante. Occorre però diffondere tra il popolo la
consapevolezza della posta in gioco, ed adoperarsi anche in caso di vittoria
del NO per evitare che i partiti del centrosinistra riprendano quel discorso
avviato con la Commissione De Mita-Jotti (1993) e con la Commissione D’Alema
(1997), attaccando e rovesciando definitivamente il modello di rapporto tra
società (movimenti, partiti, eccetera) e istituzioni (Stato, regioni, provincie
e comuni) sancito dalla costituzione. Un modello che, pur parzialmente, aveva
aperto spazi inediti di democrazia non solo
formale ma anche sostanziale
almeno dal 1945 al 1975, con le lotte operaie e di altri movimenti democratici
che avevano allarmato i gruppi di potere subalterni agli interessi statunitensi
e lo stesso sistema NATO per cui additavano il “caso italiano” di democrazia
sociale avanzata come cosiddetta “anomalia italiana” del sistema capitalistico
Occidentale.
Angelo Ruggeri
20 giugno 2006
1 Il 3 luglio 1979 Carter
firmò la prima direttiva per aiutare segretamente gli oppositori del regime
sovietico di Kabul, ben sei mesi prima dell’aggressione dei sovietici, che
allora si ‘giustificarono’ asserendo di voler contrastare un coinvolgimento
segreto degli USA. «Il
giorno che i sovietici hanno varcato il confine afghano ho scritto al
Presidente Carter che finalmente avevamo la possibilità di dare all’Unione
Sovietica la sua guerra del Vietnam. Infatti,
per circa dieci anni Mosca ha dovuto portare avanti una guerra insostenibile da
parte del governo, un conflitto che ha demoralizzato ed infine sgretolato
l’impero sovietico (…) Cosa è più importante per la storia del mondo? I
talebani o il collasso dell’impero sovietico? Qualche musulmano esaltato o la
fine della guerra fredda?», sono state le parole dello stesso
Brzezinski al francese Nouvel Observateur
(15 gennaio 1998).
2 In un’intervista rilasciata al Corriere della Sera (30 gennaio 1975), che si può considerare premonitrice della fase storica antidemocratica che stiamo attraversando, Gianni Agnelli affermò: «Probabilmente dovremo avere dei governi molto forti, che siano in grado di far rispettare i piani cui avranno contribuito altre forze oltre a quelle rappresentate in Parlamento. Probabilmente il potere si sposterà dalle forze politiche tradizionali a quelle che gestiranno la macchina economica. Probabilmente i regimi tecnocratici di domani ridurranno lo spazio delle libertà personali. Ma non sempre tutto ciò sarà un male. La tecnologia metterà a nostra disposizione un maggior numero di beni e più a buon mercato». Parole che inquietano e devono far riflettere.
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